«Questo è il mio studio», dice Elisabetta Gut (Roma 1934), con la sua voce roca di fumatrice, mentre entra nella cucina dell’appartamento in cui abita dal 1956, quando si è sposata con Luigi Martello. Sul piano di marmo del tavolo sono evidenti le tracce del suo lavoro nei piccoli buchi irregolari, nelle scalfitture che affiorano lievi. La lampadina accesa, proprio sopra il tavolo, crea un’atmosfera d’intimità in un luogo in cui non c’è nulla fuori posto.
Elisabetta indica con orgoglio il mobile di legno disegnato dall’architetto e designer Giulio Minoletti, oggi pregiato pezzo di modernariato. Sul tavolo, intanto, ecco comparire fotografie e documenti che hanno segnato la sua carriera artistica iniziata dopo aver frequentato l’Istituto d’Arte e poi la Scuola di nudo all’Accademia di Belle Arti di Roma tra il ’53 e il ’56: c’è la lettera (il timbro postale reca la data 12/10/1956) che le scrisse Felice Casorati. È dello stesso anno il catalogo della sua prima mostra, alla galleria d’arte Cairola di Milano, con il testo di presentazione dello stesso Casorati: «Un amico mi annuncia la visita della pittrice Elisabetta Gut, e mi prega di guardare i suoi lavori. Io non sono contrario alle donne che dipingono… Però, però… ed ecco la giovanissima con un bagaglio di enormi molteplici cartelle. Incomincio a sfogliare: disegni, guazzi, tempere, acquarelli, pastelli, ecc. ma tanti, tanti, tanti! Lo spavento di dover guardare tutti quei saggi a poco a poco dà luogo a una viva curiosità (…) La linea non descrive, non delimita ma si svolge – puro arabesco – solo liricamente vivendo di vita propria… il colore non asservito ad apparenze esteriori, non riproduce, non imita, ma canta ed esplode con sfrenata libertà…».
L’artista, prendendo le distanze dall’esperienza pittorica postcubista, ha trovato un proprio linguaggio che ha le sue radici nella poesia visiva. Il suo primo libro oggetto, Diario, è del 1964: ne seguiranno altri sempre attraversati da una vena lirica, da una congenita malinconia, ma anche da una folgorante ironia come 14 Chiodi (L’impronta di Man Ray) del 1991, esposto in occasione delle recenti antologiche al National Museum of Women in the Arts di Washington (2010-2011) e alla Maitland Regional Art Gallery in Australia (2012).
Tante altre opere, tutte protette dalla teca di perspex, sono esposte alle pareti o sui mobili del salotto e dell’ingresso: tra queste Libro nido (1982), Libro ombra (l’elegia dell’ombra) (2008). Su un ripiano della libreria c’è anche un libro oggetto di Mirella Bentivoglio, sostenitrice e grande amica di Gut già dalla fine degli anni Cinquanta, nonché consulente scientifica della Biennale Donna di Ferrara in occasione della mostra Post Scriptum: Artiste in Italia tra linguaggio e immagine negli anni ’60 e ’70 (1998), curata da Anna Maria Fioravanti Baraldi, che vede tra le protagoniste Elisabetta Gut insieme, tra le altre, a Ketty La Rocca, Maria Lai, Tomaso Binga, Paola Levi Montalcini.
Un punto interrogativo, stampato con l’inchiostro nero, è sul foglio di carta poggiato sotto una piccola cornice dorata. Lì accanto, sul tavolo da disegno, c’è un antico yad (in ebraico vuol dire «mano»), il puntatore usato come guida per il lettore della Torah. «Non ci avevo mai pensato – afferma l’artista prendendo in mano l’oggetto che apparteneva a suo padre e che lui nascondeva accuratamente – ma questo è un altro legame che ho con la scrittura».

Il tuo lavoro è sempre attraversato dalla musica: il filo che diventa pentagramma, la serie «Strumento musicale», «Musica impazzita», «L’uccello di fuoco» (da Stravinsky)

Lavoro sempre nel silenzio totale o con la musica di sottofondo, classica o jazz. La musica mi dà il ritmo. Mi dà le proporzioni dei neri, dei bianchi, mi dà gli equilibri. Quando dipingevo, e facevo il gestuale, ascoltavo soprattutto musica jazz. Negli Sessanta, avevo uno studio al piano di sopra che mio marito aveva affittato. Avevo gettato il colore su tutte le pareti, come una pazza, dipingendo lo studio in maniera frenetica, poi un giorno venne il signor Carandente che mi disse: «Ma che fa?… Queste cose in Italia non possono piacere, assolutamente». Questa frase mi bloccò così tanto che per un po’ non feci più nulla. All’epoca, poi, se una donna era bella allora doveva essere completamente scema. Ci facevano venire i complessi…

Felice Casorati scrisse il testo della prima mostra. Qualche ricordo?

Era un angelo! Mi ricordo che mangiava con le sorelle, quelle ritratte nei quadri, e intorno al tavolo c’era anche il cane – lui adorava i cani – in seggiolone e con il bavaglino su cui era ricamato il nome. C’era anche Daphne, la moglie, pure lei pittrice. Ero felicissima. Avevo appena finito la scuola, ero andata da lui nella villa di Pavarolo, vicino Torino, con due cartelle. Erano lavori scolastici…. Mio marito conosceva un grande collezionista del nord, Accame, che abitava in una villa sul lago di Como e aveva opere di Klee, Matisse, Cézanne. Fu lui che mi segnalò a Casorati. Dopo quella prima mostra alla galleria d’arte Cairola, ne feci un’altra allo Zodiaco, sempre a Milano, in cui vendetti la metà dei lavori.

Suo marito ha dato un supporto alla carriera artistica, dunque?

Luigi era un avvocato che faceva cinema, molti documentari, alcuni sulla Resistenza. Lui stesso era stato a Mauthausen. C’era una certa affinità tra noi, malgrado la grande differenza di età. . Era un uomo coltissimo, che amava la musica: mi portava a teatro e, poi, mi ha fatto girare tutto il mondo. Aveva capito che ero una ragazzina tenace. Girò anche documentari sugli artisti, alcuni ero io a sceglierli – Fontana, Burri, Capogrossi – altri invece non rientravano nelle mie preferenze, come Mafai e Sironi. Così, nel frattempo, andavo con lui negli studi. Ho anche una foto firmata da Burri che ho messo via così bene, che adesso non la trovo più… A Fontana, invece, mostrai le mie prime opere materiche, bianco su bianco, che cominciai a fare nel 1966.

In quei primi lavori materici compare anche la scrittura, attraverso la lettera E che viene utilizzata…

La E è l’iniziale del mio nome e anche del nome di mia figlia, che si chiama Elisabetta come me. È come le cifre che si ricamavano in collegio. Ad ogni modo, tutti i lavori che faccio nascono dalle poesie che leggo: Garcia Lorca, Rimbaud, Mallarmé, Majakovkij…

La scrittura è sempre riconoscibile?

Sono tutte cose trovate, scritture minime. Mi ispiro alla scrittura araba come a quella giapponese. Certe volte riporto la scrittura con il collage, altre la semplifico, trasformandola o copiandola al contrario. Direi che si tratta, più che altro, di un lavoro di ricostruzione della scrittura.

Sembra che tutto sia molto controllato, eppure soprattutto in lavori come «14 Chiodi» (L’impronta di Man Ray) c’è un’ironia dirompente…

Supercontrollato, però sì – certamente – c’è ironia. Adoro Man Ray e l’idea del ferro da stiro mi è venuta studiando la sua opera. Avevo un libro che non mi piaceva per niente, tra l’altro era sulla famiglia, quindi c’era in me un fondo di rabbia. Ho preso un vecchio ferro da stiro e, rovente, l’ho pigiato prima su una pagina, poi su due, su tre… dando una profondità, poi ho fatto arroventare un chiodo, tenendolo sul fuoco con le pinze, e ho segnato i 14 buchi dei chiodi come nell’opera di Man Ray. Come ho indicato nel titolo, è come se fosse la sua impronta.

Hai accennato alla famiglia: un’esperienza dell’infanzia che ha lasciato il segno è stata proprio la separazione dalla famiglia, durante la seconda guerra mondiale. Un padre ebreo svizzero, una madre cattolica italiana, i figli mandati in Svizzera per poi tornare a Roma nel 1945…

È stato un periodo terribile. Sì, sono per metà ebrea perché mio padre era ebreo. La nostra era una famiglia numerosa, avevo sei sorelle e un fratello, forse è per questo che non amo la confusione. Tra noi, comunque, non c’era un grande affiatamento. Solo con la sorella che era a Lugano, come me, ho avuto un legame più forte. Non furono i nostri genitori a volerci mandare in Svizzera, ma l’organizzazione Pro Juventute. Per non lasciare i bambini svizzeri sotto le bombe ci avevano fatto partire con i cartellini al collo come i deportati. Una volta arrivati lì ci hanno divisi, mandandoci chi da una parte, chi dall’altra. Io sono stata spedita in collegio e poi in famiglia a Zurigo e a Lugano, dove sono stata molto bene. Ricordo che a Zurigo con mia sorella Rosa Bianca, il sabato e la domenica, andavamo a vedere i musei: i dadaisti, i surrealisti. Avrò avuto sei anni, mentre lei ne aveva quattordici o quindici. Benché fossi molto piccola apprezzavo soprattutto Klee. Lei era stata «adottata» da una famiglia dove veniva trattata come una governante, le facevano fare le pulizie, dare la cera, non le davano abbastanza da mangiare. Non è che queste famiglie facessero un atto di generosità, venivano pagate dall’organizzazione. Io sono capitata nella famiglia di un ferroviere dove mangiavo benissimo; avevo però gli incubi perché dormivo da sola in una soffitta. Il viaggio di ritorno a Roma, nel ’45, in treno fu bellissimo. Ricordo i vagoni di legno e gli americani che ci dicevano che eravamo belli, riempiendoci di cioccolata.

Rientrare è stato rassicurante?

A casa c’era troppa confusione. Studiavo, svogliata. Avevo una zia, Virginia Delmati – sorella di mia mamma – che mi adorava e mi faceva dormire nella sua stanza. Aveva una grande libreria e mi faceva fare il restauro dei libri che si rovinavano. All’epoca come colla usavo la farina che facevo sciogliere nell’acqua calda. Da lì è nato il mio primo libro. Zia Virginia era cattolicissima e molto religiosa, ma non in modo morboso. Stava alla Pontificia Commissione d’Assistenza, perciò aiutava anche i carcerati. Soprattutto, ero sempre in mezzo ai libri. Una volta mi capitò tra le mani un libro di Rimbaud, lei mi disse di metterlo via subito. Figuriamoci se l’ho fatto! Com’è uscita, me lo sono letto tutto.

Quindi siete cresciuti in un clima cattolico…

Sì, ma poi c’era la nonna Lévi di Parigi che era ebrea. Comunque già a sedici anni protestavo dicendo che il matrimonio non è qualcosa che viene dalla natura, ma è un’invenzione dell’uomo. A diciassette anni, poi, sono voluta andare in collegio. È stata un’esperienza bellissima: ero dalle suore Orsoline, a Roma vicino via Brera, che mi trattavano come se fossi Picasso. Ero una peste, per farle arrabbiare mi truccavo tantissimo e mi tingevo i capelli come fanno oggi i punk. Facevo un po’ la matta, ma ero la più brava della classe. Avevo tutti 9 e 10. I miei insegnanti erano Carla Lonzi per la storia dell’arte e Bruno Zevi per l’architettura. Zevi, in particolare, mi ha insegnato il rigore. Diceva che ci può essere tanta fantasia, ma messa nel rigore: bisogna dipingere come un bambino e pensare da adulto.

Il rapporto con Carla Lonzi?

Mi aveva preso in simpatia, con lei nel 1970 ho fatto le prime riunioni femministe. C’erano Carla Accardi e Simona Weller: lei pubblicò il Manifesto di Rivolta Femminile.

Il tuo primo libro oggetto, «Diario» (1964) già nel titolo rimanda a qualcosa di molto intimo…

Dentro questo libro ci sono i ricordi di come era arredata la mia casa di famiglia con tutti gli ori, le consolle, i pizzi delle toilette delle nonne, quelli delle tovaglie o delle tende. Ho sempre un ricordo un po’ proustiano dell’ambiente.

In altri tuoi libri compare anche la cancellatura…

La mia cancellatura non ha niente a che fare con Isgrò. Per me è un trattenere le parole, più che il cancellarle.

In altri, invece, c’è il filo…

È usato come costruzione per fare gli strumenti musicali.

Le tematiche sono sempre di matrice esistenzialista: la malinconia, la fragilità della vita…

Sì, sono sempre stata malinconica. Ma è un tipo di malinconia che mi fa lavorare.
Hai un rapporto quasi materno con le tue opere. Il distacco è difficile?
Sì, non le do volentieri. Quando le mie opere sono partire per l’Australia ero preoccupatissima, perché hanno dovuto fare un viaggio lunghissimo. Sono parti di me, pezzetti del corpo, dell’anima. Al museo di Washington, ad esempio, hanno voluto acquistare la mia Bicicletta della luna, un’opera del 2000. Mi è dispiaciuto molto dovergliela dare. Per farla ho usato una bicicletta vera, trovata per strada, che avevo dipinto tutta di bianco tranne la ruota posteriore che è nera. È come se tutti i fogli volassero sulla luna.