Quando, negli anni Settanta, l’Università adotta come nuova scienza lo strutturalismo, un manuale che è anche un’inchiesta si incarica di dimostrarlo senz’altro come il migliore dei «metodi attuali della critica in Italia»: è questo il titolo che Maria Corti e Cesare Segre scelgono per quel volume di larga fortuna, che passa in rassegna, confronta e antologizza ciò che la critica letteraria è nel 1970.

Adesso, a ripensarci nel giorno dell’addio di Cesare Segre, le date assumono un peso determinante. Segre ha allora quarantadue anni ed è un maestro: amato o avversato conta meno, perché colpisce soprattutto l’età relativamente giovane nel campo degli studi letterari, tanto più sorprendente in relazione alla quantità e alla qualità dell’influenza esercitata già a partire dalla pubblicazione di I segni e la critica (1969), col seguito di Le strutture e il tempo (1974): due raccolte di saggi, comunque le si voglia giudicare, capitali nel panorama letterario, e arrivate come una di quelle novità destinate a rimescolare le carte in tavola.

A chi seguiva le proposte dello strutturalismo e della semiotica letteraria in Italia (in particolare sulle pagine della rivista «Strumenti critici», diretta da Segre, Corti, Avalle e Isella, quattro studiosi la cui vicinanza non faceva dimenticare le molte diversità), poteva suscitare qualche perplessità l’interesse quasi esclusivo al metodo, perfino nel tentativo di fare un po’ di chiarezza nella giungla lessicale per cui, nella riflessione teorica, una stessa parola significava tre o quattro cose diverse, l’una sfumante nell’altra a seconda della variabilità dello stesso tessuto teorico; o perplessità arrivava da un apparato metodologico che poteva apparire sovrabbondante rispetto all’oggetto indagato, per arrivare a conclusioni alle quali si poteva giungere tranquillamente per altre vie, dall’apparenza forse meno rigorosa e dunque più sospetta, in un rincorrersi di intenzioni non facilmente districabili.

Il fatto è che i libri di Segre rinnovavano profondamente la cassetta degli attrezzi del mestiere, e lasciavano ammirati per la loro assoluta serietà. I sospetti venivano dall’epigonismo che, come sempre capita, alla serietà sostituiva la sua parodia, col tedio di centinaia di analisi l’una uguale all’altra, tutte equivocamente giocate sotto il mantello della nuova dizione: «scienza della letteratura».

Da dove arrivavano dunque la serietà e la probità di Segre, ovvero dov’era l’origine della sua influenza nel campo degli studi letterari? Da dove veniva quella che, nonostante i molti libri, presentati quasi come neutri referti dallo sperimentatore, bisogna pur chiamare laconicità o assoluta assenza di oratoria?

Il volume Lingua, stile e società , che nel 1976 raccoglieva gli studi di Segre sull’antico italiano era una risposta: innovare avendo presente la tradizione, senza recidere quel nesso vitale: cosa che non fu la stessa per tutti e che, proprio per la sua marcatura fu anche talvolta vista come un limite; ma i maestri di Segre nel versante filologico e di linguistica storica (Santorre Debenedetti, Terracini, Contini) impedivano, per la loro imponenza, che quel nesso fosse reciso.

Insomma il sospetto era dato dalla predilezione per la macchina e per il suo motore, dall’eccessiva centralità concessa alla struttura o al segno: considerazione che andava a sostituire sia l’osservazione degli effetti della macchina, sia lo scopo di quella struttura o di quel segno. La salvezza arrivava dalla formazione dentro una tradizione radicalmente diversa, storicamente piantata e filologicamente praticata, sicché quell’ultima internazionale della critica tanto presente dai tardi anni Sessanta nella cultura militante e da circa un decennio dopo nella cultura accademica, richiede un giudizio problematico.

Solo in questi ultimi anni si è visto che quei i grandi macchinari, talvolta fine a se stessi, erano stati anche il cosciente tentativo di rimozione di passioni però non accantonabili: come se il metodo dovesse provvedere all’impossibile cancellazione di ogni controversia biografica e autobiografica. E, in più, col tempo, l’idea stessa di metodo si mostrava come qualcosa di infinitamente mobile, ora invasiva ora perfino negante se stessa.

L’itinerario di Segre, nel corso degli anni, ha accompagnato questa nuova considerazione delle cose, fino all’aureo volumetto del 2012, Critica e critici, così notevole soprattutto per la seconda parola del titolo, nella quale finalmente apparivano, metodo o non metodo, personalità magnificamente distinte, da Auerbach e Spitzer a Cases e Lotman.

In questi scorci su personalità tanto varie, se non si poteva scorgere il gusto dell’aneddoto, benché significante e significativo che, chissà perché, un’intera generazione si era vietato, si avanzava però in primo piano anche una galleria degli affetti, quasi la rassegna che il generale dell’ultima internazionale della critica, congedandosi, non voleva mancare di consegnare alla memoria del mondo.