E’ innegabile che il tempo abbia giovato a scrittori tanto diversi, come Taine o Lermontov, i quali scrissero i loro libri più belli a poca distanza dalla morte. Quanto invece a Verdi, la superiorità dell’Otello sul Rigoletto è stata sempre oggetto di contesa. In un suo scritto su Goya, Huxley arrivò ad auspicare un’ipotetica Antologia delle opere tarde che avrebbe dovuto contenere tutti quei postremi lavori d’artisti nei quali l’ispirazione contingente fosse come trascesa in una contemplazione fuori dal tempo. Di un simile interesse per l’ultima stagione della sua arte non godette invece Giacomo Balla, le cui opere da un certo punto in poi vennero giudicate più tardive che tarde; quasi che in esse non si potesse scoprire altro se non un desiderio di restaurazione, il gusto di un incendiario fattosi d’un tratto pompiere.

La mostra Giacomo Balla. Dal Futurismo astratto al Futurismo iconico, curata da Fabio Benzi al secondo piano di Palazzo Merulana (fino al 17 giugno), intende smentire questa vulgata con un raffronto stringente dei documenti visivi.

Le prime tele esposte risalgono al 1926. Sono due ritratti: l’uno, Nel patio, è come di vischio dolce, di pasta diafana e zuccherina, l’altro, Biobruna, è, per contro, terso, sgrigiolante come di contatto elettrico. Ma i dipinti, seppure tanto diversi, rimandano a una medesima tipologia iconografica, che sembra ispirarsi, oltre che al cinema e alle sue dive, anche alle fotografie dell’epoca. Un vaporoso autoritratto, Autocaffé (1928), consonante con il lavoro del fotografo Bragaglia esposto accanto, è la conferma di come il pittore stesse studiando in quegli anni «un sistema del tutto nuovo di figurazione». Queste ricerche non dovettero sembrare così eretiche ai suoi compagni nella battaglia per l’arte nuova, se essi vollero su «Futurista», il più ortodosso fra i loro fogli, pubblicare una riproduzione del dipinto. Nel 1930, d’altra parte, sull’«Almanacco degli Artisti» Balla aveva espresso il suo entusiasmo per le forme visive della cultura di massa – «Il Cinema ha scavalcato i pittori (le folle ne sono attratte e lo dimostrano)» – in toni che erano chiaramente marinettiani, sicché, se il pittore tornò, come si disse, a un ordine, fu a quello del futurismo primigenio: rinnovarsi o morire.

«I confronti con la fotografia di moda» mostrano effettivamente come le immagini di Balla «strizzino l’occhio a un immaginario popolare, a un modo di vedere la realtà che è esattamente quello moderno di quegli anni». Nelle due piccole sale si vedono i più sofisticati lavori di Elio Luxardo e di Arturo Ghergo: sono scatti di dive. Ghergo predilesse le gamme più soffuse e cremose dei grigi le cui note seppe modulare con estenuante raffinatezza, dall’opale duro degli sfondi ai riflessi dei primi piani che avevano un’incandescenza preziosa come di vetro soffiato. Luxardo amò invece i tagli più arditi, le tinte d’acciaio e i rilievi salienti. Certe sue immagini di atleti rammentano la Riefenstahl, ma è soprattutto in film come La Corona di Ferro o Ettore Fieramosca che va ricercato l’equivalente cinematografico di queste fotografie.

Balla ne studiò le inquadrature, riprodusse le pose assunte dai soggetti fotografati nelle quali c’era come un’aspirazione vegetale a farsi bagnare dalla luce. Nel ciclo Le quattro stagioni in rosso (1940) giunse a incollare sulla tavola una rete metallica (tecnica impiegata anche in altre tele coeve) perché i dipinti producessero un effetto simile a quello delle immagini a stampa sui giornali. Né trascurò che su ciascuna delle quattro figure riverberasse una luce innaturale, come d’incendio, alla quale i corpi si abbandonano rigogliosi.

Eguale significato ha la luce, più diafana e sottile di Luce estiva (1936) e quella più opulenta che domina in La figlia del sole (1933): luce solare che è luce di posa, fotografica appunto. Il confronto fra l’immagine della Garbo nella controcopertina di «Cinema illustrazione» e il ritratto a matita che ne fece (1935) il pittore, identico nel mobile gioco di riflessi, non lascia dubbio alcuno. Queste pose, questa luce Balla seppe assorbirle dalle riproduzioni meccaniche dell’epoca industriale con l’occhio fresco ed elastico della sua giovinezza. Nessun tramonto dunque in queste opere, solo un’aurora forse della pop art.