Durante il XVI secolo Vicenza, tranquillo borgo rurale ai piedi dei Colli Berici, intraprende una profonda trasformazione urbana per volontà di un ricco e colto patriziato volto a incrementare le sue ricchezze in dinamiche attività tessili e commerciali, oltre che nell’agricoltura.
La sua renovatio urbis si svolge tutta all’insegna del ritorno al mondo classico considerato, come scrisse il Garin, «fonte pura e il modello di una civiltà che allontanandosi dalle origini invece di progredire è andata degenerando».

DI QUALE NATURA fosse l’Umanesimo a Vicenza, se includerlo in quello epigrafico e archeologico secondo lo schema proposto da Chastel e quali lineamenti possedesse, è ciò che illustra la mostra La Fabbrica del Rinascimento. Processi creativi, mercato e produzione a Vicenza, aperta alla Basilica Palladiana fino al 18 aprile.
Curata da Guido Beltramini, Devoto Gasparotto e Mattia Vinco, con Edoardo Demo, l’esposizione si concentra nel periodo che va dal 1550 alla fine del secolo. Cinquant’anni nei quali la città, oltre i suoi dintorni, vedono la comparsa di palazzi e ville di magniloquente eleganza. Li firma Andrea Palladio: un uomo dalle origini vaghe e umili, balzato rapidamente sulla scena per l’amicizia con un aristocratico letterato, Giangiorgio Trissino, che da scalpellino lo scopre, l’incarica della sua villa a Cricoli, visitano insieme Roma (1541, 1545-47), ma soprattutto lo vede trionfare vincitore nel 1549, un anno prima della sua morte, per il diaframma di serliane con il quale riveste il gotico Palazzo della Ragione.

AL SUCCESSO dell’incarico contribuirono Marcantonio Thiene, Alvise Valmarana e Gerolamo Chiericati: i nobili committenti di Palladio. La mostra ripercorre con accurata disamina delle fonti archivistiche, non solo le vicende dell’«architettura ’parlante’» dell’autore dei Quattro Libri legata ai suoi proprietari, ma i rapporti intrattenuti con il nucleo di artisti come Paolo Veronese, Alessandro Vittoria e Jacopo Bassano: gli interpreti della lezione che Vasari chiamò «maniera moderna».
L’esposizione ha però anche un altro intento che riguarda la sua parte conclusiva. Dopo avere descritto gli intrecci tra le arti nelle belle machine palladiane, esemplate in un’infilata di modelli lignei con davanti i due ritratti (1552) del Veronese dei coniugi Iseppo Porto (Uffizi) e di Livia Thiene (copia dell’originale del The Walters Art Museum, Baltimora) con i loro figli, la mostra illustra le condizioni di vita nel Veneto rinascimentale, il valore delle opere d’arte dell’antichità e la natura del collezionismo antiquario.

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SI APPRENDE COSÌ che Andrea per la Basilica Palladiana percepì, dal 1549 al 1580, anno della sua morte, cinque scudi d’oro che non erano un salario così alto, mentre costose erano le opere d’arte romana, meglio se sane, come il busto d’ignoto di età antonina e non danneggiate, come quello di Antinoo. Anche se spetta a un oggetto contemporaneo il prezzo più alto: la croce in argento per Clemente VII del raffinato orafo Valerio Belli.
Avere descritto le vicende della storia economica chiarendo il dinamismo e la flessibilità del settore manifatturiero, ha contribuito a far comprendere meglio il secolo d’oro di una «piccola patria» che con il suo repubblicanesimo voleva affermare la sua autonomia politica dai ceti dominanti di Venezia.
Tuttavia, è nell’emulazione del classico che ogni singola storia di artisti e mecenati trova il suo fulcro, fosse la manìa del collezionista o la passione dell’artista. Il prologo di questa volontà si era manifestato nel 1543 con l’ingresso in città del cardinale Nicolò Ridolfi. Palladio mette in opera una scenografia di archi trionfali, statue giganti e obelischi, che possiamo solo immaginare soccorsi dal dipinto di Andrea Michieli per L’ingresso di Enrico III al Lido (1574): esecutore degli apparati sempre Andrea.
Che Vicenza si dovesse trasformare in una città monumentale era annunciato, ma «senza il monumento», un po’ come Giulio Romano fece a Mantova «contrapponendosi» ad Alberti e alla sua idea di monumentum, come spiegò bene Argan.

A DIFFERENZA DI ROMA, la città-repubblica berica doveva esibire architetture «civili» secondo un calibrato programma indirizzato verso un nuovo ordine spaziale e funzionale. Era un piano che richiedeva l’esercizio filologico, quindi, la conoscenza diretta dei resti dell’antichità, però con un’avvertenza: «essere all’altezza dei classici, nient’affatto lasciarsi ’incantare’ da essi» (Cacciari, 2019).
Il fare architettonico di Palladio si orienterà, quindi, allo sviluppo di quei «processi creativi» il cui grado di sperimentalismo sarà nel verificare e selezionare il canone classico e suoi modelli, ma resi duttili all’ars combinatoria e all’elenco di tipi che solo l’esperienza permetterà di adottare, non più sorretto, quindi, dalla sola teoria, ma alle volte «accomodandosi più alla volontà di coloro che spendono che a quello che si dovrebbe osservare», come disse lo stesso Andrea.
Anche gli artisti presenti nei suoi cantieri condividono le istanze dell’esaltante sperimentalismo manierista. Il trentino Alessandro Vittoria colloca busti pseudo-antichi nella Sala dei Principi di Palazzo Thiene (1542), dove Palladio si sostituirà a Giulio Romano. Per Vasari è lo scultore che detiene «sopra gl’altri di quel paese la palma»: abile nel sapere eternare la memoria di uomini illustri (Tommaso Rangone, ca. 1575) e per la bellezza delle sue statue (San Sebastiano, 1563-64).
Dala statuaria all’effimero delle cerimonie religiose, la storia romana saliva in città in pregiati bassorilievi fin sulle facciate delle fabbriche palladiane: da Palazzo Valmarana (1566) al Barbarano (1570-75). A elevare lo splendore delle dimore e dei luoghi, concorrevano pittori e decoratori. Paolo Veronese, per Palladio il «Pittore eccellentissimo», sarà il principale interprete del manierismo, edotto dal Sanmicheli ed esperto conoscitore della grafica del Parmigianino, che in Veneto avrà una vasta schiera di estimatori, come Andrea Schivone, e Paolo e Jacopo Bassano.
Il rinnovamento di temi e forme espressive, conseguenza dell’arrivo del Veronese a Vicenza nei primi anni Cinquanta (Palazzo Porto, 1552), coesisterà, tuttavia, con schemi tardi (Bernardino India, Anselmo Canera) e con artisti che già mostravano il loro fulmineo avanzamento stilistico (Giovan Battista Zelotti, Domenico Brusasorci).

DIFFICILE COMPRENDERE gli scambi tra discipline, le attese di una società in transizione senza la lettura dei saggi in catalogo (Marsilio) che si presenta con una pluralità di contributi essenziali per cogliere i significati delle opere d’arte esposte.
La mostra fissa l’atto conclusivo della mise en scène «all’antica» a Vicenza nel Teatro Olimpico: opera ultima di Palladio che iniziò nell’anno della sua morte, il 1580. La prima rappresentazione (1585) alla quale assistono i nobili vicentini è l’Edipo re di Sofocle. Nello spazio a emiciclo sono disposti in rassegna gli Accademici vestiti da antenati romani nell’unicum di un fastoso apparato decorativo nel quale regna, come in città, la «legge dell’illusorio».
Oltre al successo dei traguardi raggiunti da quei patrizi, nella tragedia greca ben si rifletteva anche il lato inquieto della loro fama. Intanto la storia futura si preparava a esibire le stesse sciagure, come a Tebe.