Era il 21 agosto del 1920, esattamente cento anni fa. Una giovane signora con la pelle scura, la figura imponente, il passo sicuro di chi è abituato a calcare i palcoscenici e sa cavarsela in ogni situazione entrò in uno studio di registrazione, quelli dove ancora il suono si convogliava meccanicamente in un enorme imbuto, e da lì lo spostamento d’aria andava a mettere in movimento una membrana che incideva, con uno stilo appuntito, un cilindro di cera o un disco di gommalacca che girava su un perno azionato da una manovella. Accanto le avevano m esso un gruppo che si era convenuto di chiamare Her Jazz Hounds, qualcosa come «i suoi segugi del jazz». Quel gruppo lo aveva organizzato per la seduta d’incisione un gran signore delle note afroamericane Willie Smith, pianista esperto di pentagrammi e di stride, lo stile effettistico e trascinante che era sbalzato fuori dal primo ragtime. Lo chiamano «The Lion», il leone, perché nella prima guerra mondiale era riuscito a sopravvivere la macello delle trincee, guadagnando fama e rispetto per il suo coraggio. I neri degli States c’erano finiti a schiere. C’era finito peraltro anche un altro musicista con la pelle scura e il genio strumentale, Jim Europe, che forse il destino di combattere nel Vecchio continente se lo portava già nel cognome.

LADY IN BLACK
La signora in questione era Mamie Smith, il disco che ne uscì fuori, un successo bomba per l’allora ancora nascente mercato discografico si intitolava Crazy Blues. Prima volta nella storia una persona afroamericana incideva una musica radicata nella propria comunità, già orecchiata da legioni di musicisti bianchi, già testimoniata per scritto da qualche compositore nero che ne aveva avuto contezza, ad esempio il William Christopher Handy di Memphis Blues e St. Louis Blues, o quel Jelly Roll Morton che, proprio con Handy avrebbe polemizzato con parole al vetriolo, sulla primogenitura di certa musica. Qui però si saldarono assieme le due ragioni, una donna nera e il blues, già «sparato» nel titolo. Sull’etichetta del disco la scritta chiarificatrice: «Canzone popolare triste». Da allora il mondo delle note afroamericane non fu più lo stesso, per un pezzo.
Eppure, se fate lo sforzo di andare ad ascoltare Crazy Blues, arzillo centenario destinato ad avere centinaia di migliaia di nipotini discografici scoprirete che di blues vero e proprio c’è più che altro il sentore, il profumo, qualche torsione nel modo di appoggiare le note. Dunque il quadro si va facendo complesso già agli inizi della storia del «blues registrato», ed è una bella storia da raccontare, che rivela, in controluce, quanto cascame mitografico sia da sfrondare rispetto a una vulgata che, del blues, ci tramanda una visione molto romantica, molto romanzata, tutta costruita sull’intarsio di aneddoti che tendono a mettere in risalto una presunta «autenticità» primigenia, il cantore solitario con la chitarra e i crocicchi dei patti col diavolo. Il fatto è che il mercato, dunque anche il mercato dei dischi, dell’autenticità se ne fa un baffo, e nel caso la costruisce direttamente, l’autenticità «a posteriori».

ARRIVA LA OKEH
Dunque succedeva negli States che, nel primo quindicennio del Novecento, due colossi si contendevano il primato del mercato discografico, la Victor e la Columbia, e i loro dischi erano incisi con sistema «laterale»: la puntina del grammofono oscillava nel percorso a destra e sinistra, come per un sentiero stretto e tortuoso. Le altre case discografiche incidevano con il sistema verticale: e allora il braccetto sussultava come la testa di un picchio. Nel 1918 uno dei milioni di immigrati negli States, il tedesco Otto Heinemann, aveva fondato una piccola e agile compagnia discografica, la Okeh. Che avrebbe avuto un suo momento di radiosa visibilità e un bel posto nella storia, peraltro, oltre che per il primo disco di blues, anche per le strepitose e storiche prime incisioni di Louis Armstrong con i suoi Hot Five e Hot Seven, alla metà degli anni Venti e un po’ oltre. La Okeh s’era inventata un sistema per cui i suoi dischi incisi col sistema laterale, potevano essere letti da tutti i grammofoni in circolazione, anche quelli a lettura «verticale». Ma aveva bisogno di fare il botto: cioè di individuare un segmento del mercato che facesse da polmone economico per il lancio in grande stile. Perché un segmento e non il mercato in genere? Perché negli States alla retorica del «melting pot», del calderone dove tutte le differenze confluiscono nell’unica nuova identità «americana» per eccellenza il mercato vero contrapponeva l’etnicizzazione romantica del ricordo, il ricordare agli immigrati, in maniera più o meno fittizia, chi fossero stati prima del balzo al di là dell’Oceano.
Anche i dischi facevano la loro parte, erano Ethnic o, come li definì la Okeh, i «Race Records»: per gli italiani, i polacchi, i cinesi, gli ebrei, i tedeschi, i lituani, i neri, naturalmente, la vera «altra razza». Che negli Usa non erano arrivati da immigrati, ma da schiavi in catene, ma che, trasformati in contadini prima e in operai proletari poi, all’inizio del secolo scorso, nelle città tutti assieme facevano un bel bacino d’utenza per un mercato, quello discografico, in veemente espansione.

BOMBA A OROLOGERIA
Dunque in casa Okeh conoscevano un giovanotto afroamericano che si intendeva di tutto un po’, in campo musicale. Si chiamava Perry Bradford. Scriveva bene e fantasiosamente, se la cavava sul pianoforte, millantava parecchio, ma un fondo di bravura c’era. Un talent scout anche, diremmo oggi. Fu lui a proporre alla Okeh una possente cantante che arrivava dal circuito del Vaudeville, antenato diretto del teatro di varietà dove sicuramente si cantava anche qualche blues, ma in mezzo a valzer, mazurche, arie da operette, scenette comiche, filastrocche e scioglilingua. Bizzarre le capriole della storia. Mamie Smith era nata in Ohio nel 1882, già da giovanissima aveva girato per gli stati del Sud con i Four Dancing Mitchells: dunque era un’artista consumata e consapevole. Pensato come prodotto economico per un pubblico di acquirenti bianchi e del Sud di dischi, il Crazy Blues scritto da Bradford con la voce stentorea e impettita di Mamie Smith divenne invece, grazie al passaparola, una bomba a orologeria identitaria per i neri del Nord, quelli che lavoravano nelle fabbriche, i facchini, i piccoli commercianti, i fattorini, gli strilloni. Ottomila copie alla settimana. E da lì partì tutto il resto: ovverosia centinaia, migliaia di incisioni in cui, più o meno, la formula era la stessa, una voce femminile che avesse caratteristiche ritenute naturalmente «nere» (potenza e corpo, effetti growl, piccoli e grandi melismi, gioco sul tempo, contrasto dinamico tra discese nel registro grave e salite sugli acuti), un piccolo gruppo di accompagnatori che riuscisse a sostenere strumentalmente il tutto. Spesso una sorta di riassunto dei fiati di New Orleans, a volte un pianoforte. Louis Armstrong ci guadagnò parecchi dollari facili, facendo da spalla alle signore del blues. E ricavandone esperienza in sala di registrazione, duttilità, senso della misura nello stare «un passo indietro» rispetto alle voci, o dialogando con esse con improvvise eruzioni sonore dalla sua cornetta tempestosa.
Nacque il tempo di Ida Cox, di Ma Rainey, dell’imperatrice del blues, Bessie Smith. Era nato «il blues registrato». Al femminile. Un repertorio che aveva bisogno di continuo apporto di materiali: purché dentro ci fosse quella parolina magica, «blues», che di colpo era diventata una chiave identitaria per tante persone con la pelle nera che, in realtà, fino a quel momento avevano frequentato tutto l’arcobaleno delle musiche «popular» da intrattenimento.
Il secondo passo, nella costruzione del «blues» nero, arrivò quando si costruì una nuova mitologia, romantica e maledetta assieme quella del bluesman nero e con la chitarra in mano, epitomizzato nella figura (tarda, in realtà) di Robert Johnson. La prima incisione di un bluesman nero arrivò nel 1924, con Papa Charlie Jackson da New Orleans, suonatore di un’ibrida chitarra-banjo: Papa’s Lawdy Lawdy Blues su un lato del disco, Airy Man Blues sull’altro. Di qui parte un’altra, imponente storia. Che arriva ai giorni nostri