A un certo punto delle due settimane passate in Tunisia con August Macke e Louis Moilliet, nella primavera del 1914, Paul Klee scrive nel suo diario: «il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo : io e il colore siamo tutt’uno. Sono pittore». Anche per il suo maggior erede, Cy Twombly, decisivo è un viaggio in Nord Africa. Nell’autunno del ’52 sbarca per la prima volta a Roma, in compagnia di Robert Rauschenberg (che ha conosciuto due anni prima a New York, e col quale ha poi frequentato i corsi di Shahn, Motherwell e Olson al Black Mountain College); di lì passa in Marocco, dove resta un paio di mesi. La ferocia calcinante della luce riduce forme e volumi, li fa precipitare a piombo, li assottiglia in ombre filiformi. Per dirla con una delle tante memorabili osservazioni di Roland Barthes (nel dittico saggistico del ’79 ora nel volumetto Cy Twombly, Seuil, pp. 64, euro 10,00, ma già nell’Ovvio e l’ottuso), è il sole africano a regalare a entrambi il loro aspetto rarus: «ciò che presenta degli intervalli o degli interstizi, raro, poroso, sparso». Il loro primitivismo è di marca del tutto diversa, dunque, da quello sensuale e rapinoso di Picasso e dintorni: è un’arte del levare. Se Klee riduce la figura al suo diagramma infantile, il giro di vite di Twombly consiste nel farla sparire del tutto. Dell’infanzia resta il «gesto», per dirla ancora con Barthes: il gesto noncurante di lasciare un segno, una «traccia», una scritta incerta sul muro per esempio; e, magari, di cancellarla subito dopo con un frego del polso.
Divorzio da New York
Di qui l’effetto di non finito che connota ogni opera di Twombly. C’è una souplesse, in lui, che lo distanzia dalla disperata energia degli action painters – che pure tanto hanno contato, nella sua formazione. Sulla base della propria esperienza, Barthes insisteva su una componente orientale. Per lui ogni grafismo di Twombly era un satori, una sospensione e un’illuminazione; e citava il Tao: «Egli produce senza appropriarsi, / compiuta l’opera, non si lega ad essa, / e perché non vi si lega, / la sua opera resterà». In verità i viaggi in Oriente di Twombly sono tardi, e alla base di questo atteggiamento va piuttosto riconosciuta la scelta di trasferirsi in Italia, a partire dal ’57. In tal senso la Roma di allora, quantum mutata ab illa!, bastava e avanzava.
C’era pure un che di provocatorio, nei confronti dell’ambiente americano, nell’atteggiamento dandistico del Twombly che si fa fotografare da «Vogue» nella sua casa di Via Monserrato, tra antichi busti marmorei, tutto di bianco vestito a sua volta – luxe, calme et volupté – con l’aristocratica moglie sullo sfondo. Era il ’66 e il divorzio dalla scena di New York s’era consumato due anni prima, col fiasco dei Nine Discourses on Commodus alla galleria di Leo Castelli. È un turning point su cui insistono diversi contributi nel catalogo della grande retrospettiva in corso a Parigi, fino al 24 aprile al Centre Pompidou (Cy Twombly, a cura di Jonas Storsve, catalogo Éditions du Centre Pompidou-Sieveking Verlag, pp. 320, euro 50,00). Castelli stesso ricorderà quei lavori come «europeizzanti e preziosistici»: e tale resterà a lungo la percezione del «rinnegato» Cy, in madrepatria (dove sugli scudi erano la Pop Art e il Minimalismo, due indirizzi da lui parimenti distanti). Niente di più equivoco, in effetti. Non c’è nulla di preziosistico, niente di squisito in Twombly. Il risvolto nascosto e rivelatore, della gloria di quella luce mattutina, sono le foto da lui scattate l’anno prima al figlio Alessandro: l’ambiente è lo stesso, ma siamo di notte. Anche il bambino è vestito di bianco ma a piedi nudi, seduto scompostamente su una sedia, lo sguardo assorto fisso sul busto in penombra, in cima a una colonna al centro della scena. È un autoritratto ideale: infanzia «selvaggia», molto americana (ricorda Storsve come di fronte all’Apollo del ’63, a Paul Winkler che gli parlava di miti greci, rispondesse Twombly: «a Rachel e a me piaceva tanto andare a ballare all’Apollo Theater, a Harlem!»), che contempla la traccia – magari imponente ma sempre frammentaria, residuale – di una civiltà tanto immensa quanto inattingibile. È in questo atteggiamento che lo aveva fotografato Rauschenberg, nel ’52: di profilo – lo stesso sguardo intento, un quaderno di appunti nella mano stesa su un fianco – a contemplare il gigantesco dito alzato della Statua colossale di Costantino nel cortile dei Musei Capitolini. Ed è proprio questo a fare dello sguardo di Twombly quanto di più fraterno e contemporaneo si possa oggi immaginare.
In Che cos’è il contemporaneo? Giorgio Agamben riprende una categoria proprio di Barthes (desunta da Nietzsche), quella dell’intempestivo (o inattuale): contemporaneo è «colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi», sicché «la via d’accesso al presente ha necessariamente la forma di un’archeologia». Non è un caso che a Twombly, proprio, lo stesso Agamben abbia dedicato nel ’98 un breve e lampeggiante frammento (opportunamente compreso nel catalogo parigino). Il suo titolo è Bellezza che cade, e fa riferimento al momento in cui «la parola, come arrestata a metà del suo slancio, mostra per un attimo non ciò che dice, ma se stessa», e si colloca nell’«attimo messianico in cui l’arte sta miracolosamente ferma, quasi attonita: a ogni istante caduta e risorta». Il tema è quello della scrittura – o sarà meglio dire, forse, scrizione – di Twombly: ossia del suo «campo allusivo», come dice Barthes, esitante fra senso e non-senso (alla questione è dedicata la monografia di Irene Jacobus, Reading Cy Twombly. Poetry in paint, Princeton University Press 2016, pp. 306, euro 50,00, che analizza in specie le citazioni poetiche riportate sulle tele di Twombly).
Agamben, «decreazione»

Più in generale mi pare però che Agamben, col suo cenno alla «decreazione», alluda all’«effetto mediterraneo», come lo chiama Barthes, il quale evoca Tyché. È l’hasard di Mallarmé (poeta-chiave, per Twombly), certo, che aveva trovato in area dada-surrealista un trattamento così diverso. Ma anche per il caso di Twombly vale l’etimo di caduta: intanto in senso tecnico (il dripping ereditato dall’action) e poi, soprattutto, temperamentale. Sempre Barthes evoca splendidamente «l’essenza di un oggetto», per esempio d’un paio di pantaloni, che è nell’essere usato, e poi gettato: è «quel mucchio di stoffa caduto a terra, negligentemente, dalle mani di un adolescente, quando si spoglia, stanco, pigro, ozioso, indifferente». È tale gettatezza a fare il fascino unico e inimitabile di questa pittura. È nel suo cadere nella vita, che riconosciamo la nostra stessa natura di accadimenti.