L’uscita di “Musica e tradizione orale nel Salento. Le registrazione di Alan Lomax e Diego Carpitella (agosto 1954)”, libro con tre cd a cura di Maurizio Agamennone, apre uno squarcio retrospettivo sia sul curatore sia sulla lungimirante politica editoriale della Squilibri. Infatti sono passati più di una decina d’anni da quando la Squilibri nel 2006 licenziò i primi due volumi della collana dell’AEM (gli Archivi di Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia); entrambi furono curati da Maurizio Agamennone “Musiche tradizionali del Salento”, libro-cd contenente le registrazioni di Diego Carpitella ed Ernesto De Martino (1959,1960), e con Vincenzo Lombardi, “Musiche tradizionali del Molise. Le registrazioni di Diego Carpitella e Alberto Maria Cirese (1954)”. Quest’ultima uscita ebbe una seconda edizione accresciuta nel 2011. Dunque: tenuto forse fede ad un presumibile ed ipotetico piano di studio, Maurizio Agamennone, è andato ad impiantare nella preziosa collana dell’AEM una sorta di trilogia che, in modo composito e originale, conduce a conclusione una ricerca nella quale s’innestano numerose ed inedite suggestioni, raccolte insieme nella panoramica e totale osservazione multidisciplinare di interi spicchi del Meridione d’Italia, dall’osso al tacco, ascoltati sì con canti celebrativi, polifonici, carnascialeschi, pizziche e ninne nanne e ulteriormente guardati attraverso lo strabismo territoriale della loro storia e geografia: stratificata nella politica, nella conformazione della società, nella statistica ed economia, e persino nelle unità abitative e nei modi quotidiani di vivere. Innanzitutto, vi è da aggiungere che contemporaneamente a quei due primi pannelli furono pubblicate, a cura di Antonello Ricci e Roberta Tucci, le “Musiche arbëreshe in Calabria. Le registrazioni di Diego Carpitella ed Ernesto De Martino (1954)”. Il citare questa pubblicazione vale come trasversalità e ricomposizione di una storia, ancora aperta e da ritenersi tra le più belle che l’Italia, uscita dalle macerie del secondo conflitto mondiale, andava ricostruendo e scoprendo nelle identità locali quell’entusiasmo etico e morale, tanto caro ad Amalia Signorelli e mutuato da Ernesto De Martino, che una necessaria ed ineludibile modernizzazione avrebbe reso irriconoscibili e mutate nel corso del tempo, se non addirittura già allora a rischio di scomparsa (l’errata profezia di una studiosa del calibro di Maria Corti, peraltro innamorata del Salento, è ben ricostruita da Agamennone nel fondamentale capitolo “grico” del libro). E pare di scorgere nell’indagine di Agamennone che la retorica pasoliniana della mutazione antropologica allora e perlomeno nel “Sallentino” della metà degli anni cinquanta del ‘900 avrebbe agito molto di più a livello linguistico che esistenziale. Le ultime campane a morto Pasolini le tirò proprio in quelle terre, cartografando in “Volgar’eloquio” ad un mese dal suo assassinio, un indirizzo non ancora pienamente visitato né raccolto. Dunque tornando alla ricerca totale di Agamennone, c’è da registrare e mai termine fu ed è ancor oggi più adatto, che i pionieristici studi di etnomusicologia di Carpitella e Cirese, peraltro esemplati su due binari abbastanza noti all’epoca, cioè quello saggistico d’impronta marxistico-crociana di De Martino e quello squisitamente musicale di Bela Bartok, cui Carpitella curerà gli “scritti popolari” – e qui di mezzo ma c’è anche l’America di Alan Lomax, vero apripista della ricerca etnomusicologia in Italia, cui si giungerà a ritroso con la “scoperta” delle registrazioni ferragostane del 1954 in luoghi oggi divenuti patrimoni protetti come Calimera, Martano, Gallipoli. Proprio in quei luoghi il girovagare europeo di Lomax divenne proverbio; “nell’anno più felice” della sua vita il poliedrico ricercatore texano affinerà i metodi sia di registrazione sia di interlocuzione con gli “informatori”, inventando una lingua franca di comunicazione che Carpitella chiama “itagnolo”. Insomma, in quel “viaggio in Italia” si gettarono le basi per quelle istanze teoriche e tecniche che consentirono agli studiosi e con loro fotografi, cineasti, sociologici, psichiatri e medici di verificare con le loro spedizioni sul campo, l’effettivo valore della tradizione musicale ed orale italiana. Proprio oggi che l’atteggiamento globale del capitale e del sociale, come dell’estetico, si mescola facilmente con il locale, e riscoprire e nel dubbio accertare, queste lontane musiche significa ricostruire a pezzi un’Italia ancora da fare.