Quegli abbracci, quei sorrisi che aspettavamo da 22 mesi sono arrivati finalmente. E hanno cambiato l’umore di un paese intero. Patrick Zaki è libero!

Solo lunedì, alla vigilia dell’udienza, nei volti delle persone che, nel gelo e nel buio dei Giardini Margherita di Bologna, si erano date ancora una volta appuntamento alla vigilia dell’udienza di Patrick Zaki, c’era una tensione pienamente espressa dai muscoli facciali, dalle parole trattenute, dagli occhi pieni di preoccupazione. Molte di quelle persone si erano ritrovate, la sera successiva, nel Rettorato dell’Alma Mater.

Le persone erano le stesse, ma i loro volti erano completamente diversi: rasserenati, commossi, emozionati. Così nelle altre 15 città che hanno chiuso, sempre martedì sera, la mobilitazione di cinquanta piazze promossa da Amnesty International per ricordare i 22 mesi di ingiusta detenzione di Patrick. Ma le ore passavano (sarebbero state 27, alla fine) e Patrick non compariva. Nessuna informazione, se fosse al Cairo, se fosse a Mansoura.

Le procedure di scarcerazione sono lente, a volte durano anche una settimana, ma quel silenzio preoccupava. Poi, è arrivata la foto dell’abbraccio. Poi sono arrivate quelle dei sorrisi. Poi le prime parole.

Sono stati 22 mesi d’inferno per Patrick, scanditi ogni 15 e poi ogni 45 giorni dal rituale dell’udienza di convalida della detenzione preventiva, seguita intorno al ventesimo mese dal rinvio a giudizio. Quei 22 mesi ora sono stati interrotti dalla decisione del giudice del tribunale d’emergenza di Mansoura di disporre la libertà provvisoria per lo studente dell’Università di Bologna.

Una decisione dovuta da lunghissimo tempo, che segna la differenza tra dormire sul pavimento di cemento di una cella vigilato dai secondini e su un letto accogliente attorniato dai familiari, quella tra non avere testi universitari da leggere e la ripresa dei contatti con l’ateneo bolognese. Differenze enormi, che consentiranno a Patrick di riprendersi fisicamente, di tornare a una provvisoria normalità, in attesa della prossima udienza del 1° febbraio 2022. Quell’udienza mette paura e insieme rinfocola la speranza: sarà quella definitiva?

È vero: dal 2017 i tribunali d’emergenza, tuttora operativi per i rinvii a giudizio disposti prima del 25 ottobre, giorno in cui è stato abolito lo stato d’eccezione, hanno celebrato oltre 140 processi ed è difficile ricordare qualche sentenza d’assoluzione.

Il 20 dicembre, tra l’altro, sapremo il destino di Alaa Abd El-Fattah, del suo avvocato Mohamed el-Baqer e del blogger Mohamed Oxygen, che da uno di quei tribunali sono processati. Così come lo è Patrick, per una delle cinque accuse mossegli al momento dell’arresto (le altre quattro sono sospese, congelate): diffusione di notizie false per aver scritto il vero, per una ricerca sulle discriminazioni dei cristiani copti d’Egitto.

Si noti, per inciso, il paradosso: un tribunale costituito per processare gli imputati di terrorismo islamista vede alla sbarra un pacifico ricercatore di religione cristiana. Ma, oltre alla speranza di un’assoluzione dei tre imputati tra 11 giorni, c’è la sensazione che la persecuzione giudiziaria di Patrick possa concludersi proprio alla vigilia dei 24 mesi dall’arresto. Anche se abbiamo imparato bene, in questi due anni, quanto sia labile il confine tra sensazione e illusione.

La vicenda inizia a pesare anche in Egitto. Lo ha sottolineato pubblicamente una figura influente come Mohamed Anwar El Sadat, nipote dell’ex presidente egiziano assassinato nel 1981 e leader del Partito Riforma e Sviluppo.

In questi due giorni, dal lato italiano, molti rappresentanti del governo e dei partiti che lo sostengono hanno espresso soddisfazione per la scarcerazione di Patrick, attribuendosene il merito. È evidente che nelle ultime settimane il «silenzio operativo» della diplomazia italiana abbia funzionato, aggiungerei finalmente. E, mi permetto di aggiungere, se ha funzionato solo dopo 22 mesi non è stato un successo pieno. Se avrebbe potuto funzionare anche prima, è stato perso del tempo.

Ma quando una campagna ottiene un successo importante, seppur provvisorio, ciò significa che tutti gli attori coinvolti hanno fatto bene ciò che loro riesce meglio: la società civile, l’Università di Bologna, gli enti locali, centinaia di migliaia di cittadine e cittadini hanno fatto rumore; i mezzi d’informazione hanno amplificato quel rumore; i parlamentari hanno incalzato il governo; il governo ha prodotto operatività silenziosa. Avviare una competizione tra rumore e silenzio, gareggiare tra chi ha avuto il merito maggiore è un esercizio divisivo e inutile.

Una cosa è certa: come ha scritto ieri Luigi Manconi su Repubblica, se negli ultimi 22 mesi non ci fosse stata una ruggente mobilitazione di persone che si sono immedesimate in Patrick, tanto da far diventare così italiana la sua storia, ci sarebbe stato solo silenzio. Inoperoso.

* Portavoce di Amnesty International Italia