«Prima di occuparci di scienza, dobbiamo metterci d’accordo sulla politica». L’affermazione di Catherine Bliss, sociologa della scienza dell’Università di San Francisco intervenuta nella giornata conclusiva dell’incontro, riassume bene il summit internazionale sulle modificazioni genetiche, tenutosi a Washington dal 1 al 3 dicembre. La scienza, per la verità, non è mancata. Al summit c’erano tutti i principali studiosi che si occupano della rivoluzionaria tecnologia Crispr: in primo luogo Jennifer Doudna, Emmanuelle Charpentier (che l’hanno inventata) e Feng Zhang (che l’ha brevettata), che hanno condiviso il palco con accademico fair play. Ma gli applausi per le grandi possibilità terapeutiche si sono alternati con i moniti giunti da storici, giuristi, sociologi della scienza e dalle associazioni di pazienti invitati a dire la loro. La possibilità di modificare le linee germinali umane agita lo spettro dell’eugenetica, soprattutto per la grande facilità di esecuzione e da un quadro legislativo ancora frammentario.

La sensazione è quella di una corsa contro il tempo, perché la ricerca procede velocissima. Sollevare un dibattito nell’opinione pubblica e stabilire un quadro normativo internazionale, invece, richiede tempi più lunghi. Tutti, a parole, vogliono evitare il «far west». Ma in gioco ci sono enormi interessi, legati alla possibilità di correggere in provetta eventuali difetti genetici degli embrioni e, magari, aggiungere qualche «aiutino». Nel dubbio, molti relatori si sono dichiarati favorevoli a una moratoria di due anni sulle sperimentazioni cliniche embrionali, concentrandosi sulla ricerca di base e sulle terapie geniche per individui adulti.

La dichiarazione finale del summit, però, si limita a dichiarare l’attuale «irresponsabilità» di tali pratiche, insieme alla necessità di valutare periodicamente il bilancio tra rischi e potenziali benefici. Prima di usare Crispr per «migliorare» la specie umana, serve un dibattito aperto a tutta la società. Come ha ricordato lo storico David Kevles, dal rischio eugenetico nessuno può dirsi immune. «Gli Stati Uniti e altri paesi hanno una lunga tradizione, iniziata ben prima della Seconda Guerra Mondiale e del nazismo: dal 1927, si contarono trentamila sterilizzazioni coatte made in Usa». Bliss ha ricordato anche che in genomica sta rinascendo, sotto una veste più neutra, il concetto di razza. «Prima era un tabù, oggi le ricerche su specifici gruppi etnici sono premiate dai finanziamenti». Più radicale ancora il «no» di Marcy Darnovsky, rappresentante del Center for Genetics and Society, che al summit ha chiesto un bando definitivo alla modifica delle linee germinali. Come Sharon Terry, presidente della Genetic Alliance (rete di oltre diecimila associazioni di difesa dei diritti dei malati) teme che molte caratteristiche umane siano trasformate in difetti da correggere.

Ma sull’efficacia di una moratoria internazionale è affiorato qualche dubbio. Crispr non richiede grandi attrezzature, se un solo paese si sfilasse il divieto verrebbe vanificato. Qualcuno allora ha proposto strumenti soft. Philip Campbell, direttore della rivista Nature, ha il suo: «Finora abbiamo rifiutato di pubblicare ricerche sulla modifica degli embrioni».

Al summit c’era anche Luigi Naldini, dell’Ospedale San Raffaele, entusiasta per il dibattito su una tecnica che può rivoluzionare il campo di cui è esperto, quello della terapia genica. «È stato molto interessante. Per i tanti i paesi rappresentati e per gli interventi di bioetici, sociologi, imprenditori». Qualche allarmismo è stato esagerato. «Sulla terapia genica le linee guida ci sono già. E sulle sperimentazioni sulla linea germinale, c’è qualche dubbio sulla fattibilità». Per quanto riguarda, l’applicazione a piante e animali, e il loro impatto sull’ecosistema, «c’è un altro comitato che ci sta lavorando». Una moratoria sarebbe stata esagerata? «Come membro di uno dei comitati, non posso ancora esprimere il mio parere. Ma presto potremo proporre raccomandazioni ai governi».