Nella costruzione dei supereroi (e non solo) tra sequel, reboot, prequel il nemico più insidioso è diventato ormai lo spoiler: lo raccomandano caldamente a ogni proiezione per la stampa di «non spoilerare», te lo chiedono gli amici persino quelli più cinefili come se la cosa fosse risolutiva. La regola è forse ancor più ferrea per questa nuovo capitolo col personaggio Marvel Comics Spider Man: No Way Home il cui «format» di evento planetario – ampliato dalla crisi pandemica – è stato confezionato (#nospoiler incluso) accuratamente – basta pensare per l’uscita italiana alla conferenza stampa col protagonista, Tom Holland, in ologramma a Cinecittà seguita da 400 persone – giornalisti e influencer, questi ultimi più indispensabili al marketing che mai.
Il nuovo Spider-Man (che poi è più uno Spider-Boy) comincia laddove era finito il precedente Far From Home (2019), con lo «smascheramento» di Peter Parker la cui identità è stata rivelata dal cattivo a tutto il mondo. Le conseguenze per lui e per chi gli sta accanto, l’amata MJ (Zendaya), l’amico del cuore, la zia May (Marisa Tomei) sono terribili: inseguito ovunque, fotografato, braccato da ogni corpo poliziesco, accusato, osannato, insultato non viene ammesso al college – e nemmeno gli amici – mentre la povera May finisce nel caos. Come fare a ritrovare il segreto dell’identità? Il ragazzo distrutto chiede aiuto al Doctor Strange (Benedict Cumberbatch), figura un po’ paterna, ma l’incantesimo che gli farebbe perdere tutto lo angoscia e mentre esita, cambia idea, interrompe qualcosa va male: si spalancano le porte del multiverso, nessuno dimentica e dai varchi dimensionali arrivano infiniti cattivi. Il fatto è che il nostro Peter/Spider (anche qui senza spoiler) è pure parecchio lagnoso, e non si capisce bene cosa vuole: salvare il mondo, se stesso, redimere i cattivoni, invertire il destino e il tempo, vivere l’amore, essere amato, andare al college, mettere tutto a posto. E nella sua melassa (con qualche tentazione all’onnipotenza) sentimental-confusa che ti fa stare simpatico il più psicopatico dei trucidi – Willem Dafoe che pare qui divertirsi molto – si incasina provocando nuove catastrofi.

LE AMBIZIONI del film però più che l’action sembrano altre, ciò su cui punta il regista è una sorta di coming of age del personaggio nel quale possono essere messe in gioco tutte le versioni che lo hanno attraversato. Un «meta-Uomo Ragno» dunque che nei cerchi incantati di Doctor Strange lascia fluire il tempo e le dimensioni implose dell’eroe, i suoi differenti sé, la sua storia, i suoi nemici, i suoi dolori in modo che la sua «declinazione» contemporanea (e futura) trovi il necessario equilibrio per assumersi le responsabilità che i poteri comportano, e con esse la solitudine della sua condizione. C’è nel passaggio verso l’età adulta del giovane Peter anche quello economico-produttivo all’universo dell’MCU, che coincide con la chiusura della trilogia – aperta da Homecoming, 2017 – rispetto al quale la memoria riflessa tra le molte dimensioni e nei paesaggi prismatici della metropoli – che ricordano un po’ il Nolan di Inception – cerca quasi spudoratamente (e la dichiara) la complicità dei fan . Cosa ne sarà di Peter Parker e dell’Uomo Ragno super eroe di quartiere? La zia May gli ha insegnato a curare, e questo «prendersi cura», riparare le cose andate male sembra essere l’obiettivo rispetto al quale il ragazzetto spavaldo impara anche a controllare rabbia e vendetta e conosce allo stesso modo degli altri super eroi conosce il dolore della perdita proprio come in ogni romanzo di formazione verso la cosiddetta età adulta insegna. Vederci un incitamento al prendersi cura – del pianeta? – nel senso di responsabilità di chi lo governa è forse troppo ma certo che su tutto svetti la Statua della libertà – per non dire poi dell’inquinamento di certi media di cui il povero Parker è vittima – non è forse casuale rispetto all’attualità. Del resto: non è anche questo il compito del supereroe?