Quanta vita si disperde o viene occultata dai canoni adoperati per i resoconti giornalistici, per la comunicazione politica, per i trattati universitari, per non dire dei brogliacci di polizia. La vita che si sprigiona in quella relazione complessa che chiamiamo movimento e che è la linfa per chi vi prende parte sospendendo la routine quotidiana fino al punto in cui ci si persuade che nulla sarà come prima, si vinca o si perda. Poi i movimenti rifluiscono e nulla è come allora. Gli studiosi, ad esempio Alessandro Pizzorno, hanno una definizione per tutto questo, lo chiamano il «momento della follia».

È quando nuovi attori fanno il proprio ingresso nella protesta (la famosa «eccedenza» di Genova 2001), altri attori riorientano il senso di appartenenza dal particolare di una sigla alla molteplicità di un movimento e allora i confini dell’azione si dilatano, sfuma il discrimine tra legale e illegale. E tutto sembra possibile, perfino un altro mondo.

ECCO, QUESTA FOLLIA è l’oggetto della narrazione d’esordio di Marco Palma in La guerra non parte da qui appena uscito per i tipi di Scatole parlanti (pp. 246, euro 15), giovane casa editrice viterbese orgogliosamente «no-eap». Palma, 38 anni, era uno studente di Sociologia all’Università di Padova quando Vicenza, la città in cui viveva, divenne l’epicentro di una mobilitazione fortissima contro una ennesima base che lo Zio Sam voleva costruire ex novo – sebbene il mainstream, più rassicurante, amava descriverlo come un banale «ampliamento».

Era il giugno del 2006 e il «popolo delle pignatte» si rivelò fin da subito come un intreccio di culture politiche e generazioni capace di contagiare sia il tessuto sociale cittadino sia di intercettare la vasta sensibilità contro la guerra e per i beni comuni che, in quei primi anni del secolo, impregnava il senso comune anche molto lontano dall’Italia. Le stesse pignatte altro non erano che il cacerolazo argentino del 2001-2002, una pratica che voleva simboleggiare il distacco radicale tra rappresentanza istituzionale (che al tempo nel nostro Paese era il secondo Governo Prodi) e volontà popolare.

Palma, senza pretesa di esaurire la storia del movimento, sceglie la forma del romanzo e si concentra su quello che, Loris Caruso, ne Il territorio della politica (Franco Angeli, 2010, dedicato proprio a No Tav e No Dal Molin) definisce «l’innalzamento della temperatura emotiva del confronto».

L’AMBIZIONE, confessa l’autore nelle presentazioni, è quella di restituire emozioni, sensazioni, espressioni di chi in quei giorni venne risucchiato nelle pratiche molteplici della costruzione del movimento. L’occupazione della Basilica Palladiana, i blocchi stradali, la costruzione del presidio permanente per fare «come in Val Susa», l’assemblea in cui venne scelta la bandiera dei No Dal Molin, la grande manifestazione nazionale del 17 febbraio 2007 sono così raccontati a chi non c’era ma aggiungono anche frammenti di memoria a quelli di lettori che, invece, c’erano.

E le presentazioni diventano occasioni per riprendere il filo della discussione. Anche perché Vicenza, la città e quel che resta dei movimenti, non ha ancora messo a fuoco questa vicenda in cui si era tutti arrabbiati e tutti euforici. La base, alla fine, è stata costruita ma qualcosa resta, per esempio, un parco strappato da quella lotta e un terreno comprato da 500 cittadini, l’atto notarile è lungo sei metri, per montarci il tendone del presidio. Il finale è sempre aperto proprio come è aperta la domanda sulla sostanza di cui sono fatti i movimenti sociali.