A fine luglio Ahmad Dawabshe ha festeggiato il suo nono compleanno. Un po’ sottotono quest’anno, a causa di un recente lutto in famiglia, rispetto a quelli rumorosi e colorati che di solito gli organizzano il nonno e lo zio da quando è rimasto orfano. Per Ahmad comunque è stata l’occasione per ricevere regali e, più importante, per dimenticare per qualche ora ricordi terribili che si porterà dietro per tutta la vita. Quattro anni fa nella notte del 31 luglio 2015 alcuni coloni israeliani entrati nel suo villaggio, Duma, a sud-est di Nablus, scagliarono bottiglie molotov nell’abitazione della famiglia Dawabshe per vendicarsi, a danno di palestinesi, di presunte politiche del governo Netanyahu avverse agli interessi dei coloni. Le fiamme sprigionate dalle molotov in pochi attimi avvolsero la casa. Per Ahmad, il fratellino di Ali, di appena 18 mesi, la morte fu quasi istantanea. I genitori, Saad, 32 anni, e Riham, 27, morirono nei giorni successivi, tra tremendi dolori, per le ustioni riportate su gran parte del corpo.

Ahmad fu salvato dal padre ma rimase gravemente ustionato. E sta completando il quarto anno di terapie per riparare i gravi danni subiti. I medici prevedono che dovrà continuarle per molti anni ancora. Ad acuire la frustrazione e il dolore della famiglia Dawabshe è che, quattro anni dopo il rogo di Duma, nessuno dei responsabili dell’attacco omicida è stato condannato. Il processo è in corso ma solo uno dei coloni inizialmente coinvolti, Amiram Ben Uliel, resta in carcere mentre in Israele crescono le pressioni della destra estrema affinché sia rimesso in libertà. Nasr Dawabsha, zio di Ahmad, punta il dito contro il sistema giudiziario israeliano che, denuncia, pratica una «giustizia doppia» nella Cisgiordania occupata, una per i coloni ed un’altra per i palestinesi. «I coloni ricevono assistenza dal governo, dalla polizia e dalla magistratura di Israele», ha protestato Nasr Dawabsha rispondendo alle domande dell’agenzia di stampa Wafa «in sostanza ai coloni viene detto: ‘Fate quello che volete ma non lasciate alcuna traccia dei vostri attacchi contro i palestinesi. E se lascerete una traccia, il governo e la magistratura vi tuteleranno».

Difficile dare torto ai Dawabsha. Lo stesso premier israeliano Netanyahu pochi giorni dopo l’attacco a Duma assicurò che i responsabili sarebbero individuati al più presto, processati e puniti. Ma quattro anni dopo le cose hanno preso una piega ben diversa. Il colono, Amiram Ben-Uliel, che ha confessato di aver scagliato le molotov nell’abitazione, ora afferma di non essere mai andato a Duma e che la sua confessione è stata estorta sotto tortura. E si rifiuta di fornire la sua versione dell’accaduto davanti ai giudici della corte distrettuale di Lod. Ad assisterlo ci sono gli avvocati Asher Ohayon e Yitzhak Bam di Honenu, un’organizzazione legata alla destra che garantisce assistenza legale agli israeliani ebrei accusati di terrorismo.

Il rifiuto potrebbe aggravare la posizione di Ben Uliel ma i due avvocati stanno facendo, con l’aiuto di organizzazioni di destra, di tutto per trasformare il processo in una tribuna politica dove presentare l’imputato come una vittima di abusi e torture. E la moglie di Ben Uliel ora sostiene che il marito era con lei al momento dell’attacco. Una versione che si scontra frontalmente con il patteggiamento accettato dal complice di Uliel, minore nel 2015, che in cambio di una condanna a cinque anni e mezzo di carcere ha confessato di aver partecipato ad un attacco frutto, secondo quanto scrive la stampa locale, di un pregiudizio razziale.