Nel 1913 Marcel Duchamp realizza Ruota di bicicletta, una delle icone della nostra storia visiva. Sarà un’opera seminale, che segnerà un nuovo approccio che nei decenni successivi diventerà una delle possibilità linguistiche a disposizione dell’artista. Quella ruota di bicicletta, che l’artista aveva nel proprio studio, era stata riciclata: è questo il punto di partenza di ReUse, curata da Valerio Dehò, e ospitata fino al 10 febbraio a Treviso in più sedi (Museo Santa Caterina, Casa Robegan e Ca’ dei Ricchi) con un progetto realizzato da TRA (Treviso Ricerca Arte) che vede sessanta di artisti e circa un centinaio di opere. La mostra passa in rassegna differenti approcci all’impiego e al dislocamento di un oggetto già esistente ribaltandone la prospettiva ermeneutica grazie a una chiave di lettura che parla del nostro oggi: spostare un manufatto dalla sua realtà all’arte è essenzialmente un gesto ante litteram – e inconscio – di riciclo.

La mostra muove proprio da opere di Duchamp – l’incredibile visore stereoscopico in scatola Frames from projected stereoscopic film – e del suo amico Man Ray, il cui Cadeau del 1921 unisce il gesto di prelevamento del manufatto ferro da stiro alla pratica surrealista dell’associazione straniante, cui non sono estranei feticismo e immaginario sadomasochista. L’idea compiuta del riciclo è invece incarnata da Kurt Schwitters, di cui è presente un collage degli anni venti realizzato sovrapponendo pezzi di giornale, fotografie, carte e cartoncini, e, con un balzo temporale in avanti, da alcuni splendidi Rotella della fine degli anni cinquanta.
Le opere successve testimoniano come nella pratica del ready made e dell’object trouvé (spesso si usano le parole in forma interscambiabile, benché la prima espressione rimarchi il concetto della disponibilità istantanea e la seconda la scelta attuata dell’oggetto) si registra progressivamente una sensibilità sempre maggiore verso lo scarto, il rifiuto e tutto ciò che è stato allontanato o marginalizzato dal mondo dei consumi. La spazzatura defecata dalla società capitalistica (come nelle compressioni di César, nei pezzi di Arman, nel poetico assemblage di Henri Chopin o negli ordinati mozziconi di sigarette di Damien Hirst) o direttamente dall’artista (come testimoniato da Piero Manzoni e nella celebre Merda d’artista del ‘61, che egli vendeva alla quotazione dell’oro) diventa uno degli ineludibili punti di attrazione, in un capovolgimento basso/alto che giunge al massimo grado: l’artista, nel mondo moderno caratterizzato dall’iperproduzione e dalla velocità dei cambiamenti, si trova a sviluppare una sensibilità verso tutto ciò che sta sul bordo, sulla periferia del nostro scacchiere, dal punto vista antropologico, estetico e psicanalitico.
E così abiti usati e alimenti scartati, mobili da robivecchi, suppellettili innescano le ricerche del Nouveau Realisme e di personalità più legate a una sensibilità dada: si pensi a Tinguely e alle sue macchine celibi realizzate con rottami, o ad azioni come la celebre The ways things go del duo Fischli & Weiss, testimoniata in mostra dal video documentativo, in cui avviene un’interazione di infinite concatenazioni dovute alle proprietà fisiche e chimiche degli oggetti in una infinita macchina di Rube Goldberg che incolla l’osservatore allo schermo. A tale approccio non si sottraggono nemmeno gli artisti dell’Arte Povera, come Pistoletto ma soprattutto Jannis Kounellis, i cui pezzi esposti evidenziano una delle sue cifre poetiche: l’esistenzialismo e la capacità di creare composizioni evocative, gravide di storie possibili.
Se gli anni settanta segnano la nascita di una sensibilità ambientale nuova, come sottolineato da una raffinata Table de lecture di Gina Pane, i sui esiti sono tuttora fertili. Si pensi a come la discarica sia una miniera di stimoli, ambientali e politici insieme, come evidenzia il lungo video di Armando Lulaj Time out of joint. Gli ultimi vent’anni hanno invece progressivamente segnato quel passaggio che il curatore Dehò (autore di un testo particolarmente esaustivo in catalogo) ha sintetizzato nella formula «dalla coscienza ecologica al trash creativo», in cui la nuova sensibilità verso i fenomeni ambientali ha spinto a una consapevolezza delle azioni degli artisti, sia nella forma di responsabilizzazione che di vero e proprio riciclo/reimpiego degli oggetti e dello scarto: è il caso delle macchine interattive di Francesco Bocchini, delle composizioni di mobili di Flavio Favelli o dell’uso creativo di insegne pubblicitarie dismesse di Matteo Attruia, risemantizzate da piccoli ma significativi interventi linguistici, come la mancata accensione di tutti gli elementi.
Non manca poi l’ironia, che rimane uno strumento di sfida, ma anche una modalità che evidenzia i limiti del nostro agire intellettuale: After Szeemann di Giovanni Morbin è un aspirapolvere con cui l’artista ha pulito lo studio di Harald Szeemann, il più importante curatore del Novecento, il cui lavoro è stato fondamentale nella definizione di cosa sia l’arte stessa. Quella polvere racconta il tentativo di raccoglierne/riciclarne l’eredità, ma, ambiguamente, anche il desiderio di liberarsene, cancellando le tracce di una presenza troppo ingombrante.