Al museo archeologico nazionale di Napoli c’è uno sfarzoso mosaico romano del I secolo a.C. composto da più di un milione di minutissime tessere policrome. Rinvenuto nel 1831 nella Domus del Fauno a Pompei, rappresenta un immaginario «fotogramma» della battaglia di Isso del 333 a.C. tra Alessandro Magno e Dario III. Il condottiero macedone, capelli al vento e grandi occhi spalancati che trasmettono la forza del suo carisma, è in sella al fraterno cavallo Bucefalo mentre il re dei Persiani, dallo sguardo impaurito, è in fuga sul carro. Il resto della scena è un groviglio di uomini e equini, in cui spiccano, lunghissime, le lance dei macedoni.

NEL SEICENTO è invece Jan Brueghel il Vecchio a trasporre in atmosfera fiamminga il fragore dello scontro finale tra il «Mégas» Alessandro e il sovrano dell’impero achemenide, svoltosi a Gaugamela. Ma se l’arte aspira a eternare gli eventi cruciali della storia, gli archeologi sono capaci di riportarci in luoghi che credevamo dissolti nel mito. È questo il caso della missione dell’Università di Udine guidata da Daniele Morandi Bonacossi che, nel presentare a Roma i risultati dell’ultima campagna di ricerche nel Kurdistan iracheno, ha annunciato di aver identificato il sito – finora di incerta localizzazione a causa di fonti discordanti – in cui Alessandro Magno sconfisse definitivamente il nemico persiano, dando inizio a un tempo nuovo, chiamato dagli storiografi moderni Ellenismo, in cui frammenti lontanissimi di Oriente e Occidente si ricomposero in un’immensa «placca» culturale estesa fino alla valle dell’Indo. Secondo Morandi Bonacossi e i suoi collaboratori – una ventina tra archeologi, topografi, restauratori, archeobotanici, palinologi e esperti di Sistemi Geografici Informatizzati – l’area della battaglia del 331 a.C. corrisponde al sito di Gomel, conosciuto in età medievale come Gogemal.

Un accurato studio filologico ha permesso di riconoscere nell’attuale toponimo il nome greco di Gaugamela, a sua volta derivante dall’assiro Gammagara /Gamgamara attestato su un’iscrizione cuneiforme risalente al regno di Sennacherib (VIII-VII a.C.). Gli scavi dell’ateneo friulano hanno inoltre appurato l’origine rurale di Tell Gomel – piccolissimo villaggio alle pendici dei Monti Zagros – che, rifondato proprio alla fine del IV secolo a.C., ebbe il momento di massima fioritura in seguito al trionfo del conquistatore macedone. A queste importanti acquisizioni si aggiungono accattivanti tracce lasciate sulla roccia. Si tratta di due monumenti già noti ma che una nuova lettura riconduce al passaggio di Alessandro Magno. In un «ritocco» di età ellenistica concernente il rilievo assiro di Khinis – venti km dall’area dello scontro epocale – potrebbe celarsi Alessandro a cavallo con la sarissa.

UN’ALTRA SUGGESTIONE arriva dal complesso rupestre di Gali Zerdak, nel monte che sovrasta Gomel, ribattezzato «Nikatorion» dopo la battaglia di Gaugamela. Qui si vede una Nike alata che porge una corona a un cavaliere ormai senza volto: sarà forse Alessandro, al cui fantasma siamo ormai abituati per l’infruttuosa ricerca della sua tomba? Nel rilievo rupestre di Nirok, scoperto dalla missione archeologica di Udine in stato di conservazione precario, appaiono invece tre soli argeadi, simboli imperituri della dinastia macedone. Per giungere a tali risultati, oltre agli scavi stratigrafici, sono state utilizzate tecnologie all’avanguardia e strumentazioni sofisticate come droni ad ala fissa e quadricotteri, che consentono di produrre, in altissima risoluzione, modelli tridimensionali e fotografie su piano ortogonale del territorio e dei siti archeologici.

AD ARRICCHIRE L’ARCHIVIO di dati anche foto aeree e satellitari realizzate in occasione di programmi di spionaggio negli anni ’50 e ’60 del XX secolo e ora declassificate dal governo americano, che forniscono un’idea del paesaggio prima che la modernizzazione dell’agricoltura e l’espansione urbana di Mosul e Duhok pregiudicassero la sopravvivenza delle rovine. L’impiego della tecnologia GIS e le riprese con i droni si sono rivelati fondamentali anche nel lavoro di mappatura di un’area vastissima che copre 3000 kmq, e che ha permesso a Morandi Bonacossi e al suo team, presenti in Iraq dal 2012 con il progetto «Terra di Ninive», di esplorare il cuore della Mesopotamia individuando 1100 siti archeologici databili tra il Paleolitico e il periodo islamico.

Il prezioso «bottino» di dati per future ricerche è anche un indispensabile strumento di tutela: l’inventario dei siti scoperti viene infatti messo a disposizione della autorità irachene, le quali possono localizzare con precisione i luoghi di interesse storico e proteggerli da potenziali danni derivanti dall’agricoltura, dallo sviluppo urbano o dai vandalismi. In questo delicato ambito, la missione dell’Università di Udine porta avanti anche un piano di salvaguardia e valorizzazione dell’impressionante sistema di irrigazione costruito dal re assiro Sennacherib nel 700 a.C. per convogliare, attraverso una rete di canali lunga 250 km e dotata di acquedotti in pietra – i primi della storia – l’acqua a Ninive (odierna Mosul), ultima capitale del regno assiro oltraggiata dalle ruspe dell’Isis nel 2014. Sulle montagne, nel punto in cui veniva deviato il corso naturale dell’acqua, il sovrano aveva fatto scolpire dei grandiosi rilievi rupestri, oggi esposti – così come l’antichissima struttura idrica – a intemperie e distruzioni di ogni genere.

PER QUESTA RAGIONE, con il supporto dell’Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del Cnr e grazie all’appoggio del Ministero degli Affari Esteri e Cooperazione Internazionale e dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo – che, assieme al Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia e Fondazione Friuli, sostengono il progetto «Terra di Ninive» – gli studiosi puntano alla realizzazione di un parco archeologico e all’inserimento dell’intero complesso monumentale nella lista Unesco.

 

Il progetto «Terra di Ninive» intende contribuire alla «capacity building» del Kurdistan, regione dell’Iraq confederato che, negli ultimi 40 anni, è stata destabilizzata dalla guerra. In tale contesto è stata assicurata dagli esperti italiani la formazione del personale della Direzione delle Antichità del Kurdistan nelle tecniche di scavo, restauro, disegno dei materiali, antropologia e geoarcheologia, con l’ausilio di manuali didattici appositamente tradotti in curdo. Nel Museo Nazionale di Duhok è stato inoltre allestito un laboratorio di restauro archeologico, attualmente l’unico del paese con due giovani formate per condurre le operazioni basilari di cura dei reperti.