«Quello che fa più rabbia è che da quando ha chiuso siamo stati costretti a cambiare il nostro modo di operare, ora non pensiamo più all’accoglienza ma soltanto all’emergenza». Gervasio Ungolo, responsabile dell’Osservatorio Migranti Basilicata, si riferisce al campo di accoglienza di Palazzo San Gervasio (Potenza) che fino al 2009 ha ospitato 1.500 lavoratori migranti stagionali per la raccolta del pomodoro. Quello che era simbolo di integrazione e accoglienza, sorto tra l’altro su un bene confiscato alla mafia, oggi non c’è più. Al suo posto c’è un Cie, chiuso e abbandonato dal giugno 2011 dopo un’inchiesta giornalistica. Il centro di identificazione ed espulsione è salito agli onori della cronaca nazionale con il nome di «Guantanamo d’Italia» grazie a un video girato dai tunisini reclusi al suo interno. Contiene immagini forti, tra queste una in particolare: un migrante giace a terra, immobile, dopo esser caduto da una recinzione alta 5 metri. I soccorsi tardano ad arrivare. Due poliziotti, anche loro immobili, guardano il ragazzo non sapendo cosa fare. Dall’interno della recinzione si sollevano le urla, le uniche comprensibili sono «perché» e «terroristi». Fabrizio Gatti ha paragonato quell’immobilità dei poliziotti all’immagine che «l’Italia sta dando sui suoi rapporti con il nuovo Nord Africa».

Aperto come Cai (Centro di accoglienza e identificazione) cambia il nome in Cara (Centro di accoglienza richiedenti asilo) nel febbraio 2011. In piena emergenza Nord Africa diventa Cie grazie a un decreto dell’allora presidente del consiglio emanato il 21 aprile dello stesso anno che, con effetto retroattivo, ha fatto in modo che si innalzassero mura di cinta e recinzioni alte 5 metri intorno ai tunisini detenuti sbarcati dopo il 5 aprile, e cioè dopo quella data spartiacque che ha vietato loro il tanto discusso permesso umanitario temporaneo. Permesso con il quale codardamente l’Italia ha fatto un passo indietro dinanzi agli sbarchi e alle vittime del mare. Preferendo rilasciare, invece di far fronte all’emergenza, un permesso di libera circolazione di sei mesi sul territorio italiano: è la politica dello “scaricabarile”.

Chi gestisce questi centri spesso non ha nessuna qualifica o esperienza, partecipa semplicemente a una gara di appalto dove ai detenuti viene assegnato un valore che oscilla tra i 30 e i 60 euro. La cosa strana è che nel Cie di Palazzo la gestione era stata affidata, senza partecipare ad alcuna gara d’appalto, alla società trapanese Connecting People, tuttora in attesa di giudizio con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla truffa dello Stato e inadempienze di pubbliche forniture per aver “fatturato” un numero di ospiti maggiore di quelli realmente presenti nel Cie di Gradisca, per un danno complessivo di quasi 1,5 milioni di euro. Un vero e proprio business a scapito degli immigrati.

Secondo la Caritas ogni anno la spesa pubblica per la gestione di questi centri è di 55 milioni di euro, ma stiamo parlando di stime perché un dato ufficiale non è mai stato fornito dal ministero della Giustizia. Stando invece al dossier di Lunaria, nel periodo 2005-2011 lo stato ha speso 1 miliardo di euro per allestire, gestire, mantenere e ristrutturare i centri. Un impiego di forze e di denaro non indifferente per contrastare l’immigrazione irregolare. I risultati? Ridicoli: il totale dei trattenuti rappresenta lo 0,9% degli immigrati irregolari presenti in Italia, e a oggi meno della metà dei trattenuti è stato rimpatriato nel suo paese di origine, nonostante abbiano aumentato i tempi di permanenza per l’identificazione da 6 a 18 mesi di reclusione. Parliamo di una detenzione preventiva in vere e proprie carceri speciali e isolate dal resto del mondo. Prigionia arbitraria spesso perpetrata ai danni di innocenti, colpevoli solo di essere arrivati in Italia sprovvisti di un documento.

Proprio come Zied, tunisino, che nel Cie di Palazzo San Gervasio ha passato un mese e un giorno: «Il tempo non passava più, è come esserci stato per 3 o 4 anni», mi dice al telefono. «Non sono mai stato in carcere, ero in ansia e non riuscivo a dormire, ho chiesto delle medicine per la testa (tranquillanti, ndr) e mi hanno dato medicine per la pancia». Ora Zied vive in Italia, ha ottenuto l’asilo politico e lavora al mercato, «ho la carta d’identità, la patente e la tessera sanitaria. Tu ce l’hai la tessera sanitaria?» mi dice ridendo. Gli chiedo com’era la permanenza nel Cie di Palazzo: «Come porci ci trattavano», e non aggiunge altro. Lo credo bene. Il Cie di Palazzo San Gervasio consisteva in una colata di cemento di un ettaro con 18 tende della protezione civile, nelle giornate calde diventava un forno a cielo aperto senza altra possibilità di ombra se non quella delle stesse tende roventi. Un non-luogo dove ogni diritto civile veniva meno, dall’acqua calda alla possibilità di parlare con un avvocato.

La chiusura di questo centro è stata una vittoria effimera, dato che nel novembre dello scorso anno si sono regolarmente aperte le buste con i vincitori del bando per la ristrutturazione del Cie di Palazzo San Gervasio e quello di Santa Maria Capua Vetere. Sono stati stanziati 18 milioni di euro, sbloccati da un’ordinanza del capo della protezione civile Franco Gabrielli che ha attinto ai fondi elargiti dell’allora governo Monti per l’Emergenza Nord Africa.

È un caso emblematico quello di Palazzo San Gervasio, che ci interroga sul perché proprio ora che il sistema di detenzione dei Cie sta crollando ci sia ancora chi continua ad erigere queste inutili e costosissime carceri.

Ancora una volta i fatti ci hanno dimostrato che non siamo tutti uguali e che per colpa di un passaporto c’è chi è destinato a passare la sua esistenza a testa bassa, chiedendosi il perché non può sperare di sognare una condizione migliore. E poi c’è invece chi può liberamente oltrepassare i confini senza essere arrestato, e forse non si è mai chiesto il perché di così tanta fortuna.