Un trentenne biondo sonnecchia abbracciato al suo cartello di cartone che grida «I need a miracle!», sul marciapiede delle 52sima east, un vecchio nero dorme tra i suoi stracci sulla Hudson, nel cuore del Village, mentre una intera tribù si è accampata nei giardinetti del metrò tra Broadway e Amsterdam avenue nel sempre più ricco Upper west side. Dopo 30 anni gli homeless sono tornati in massa a New York. E se quelli che incontri ogni giorno sono solo 3000, negli shelter, gli ospizi ce ne sono ormai ben più di 57mila. Famiglie con bambini, gente comune che la mattina va a lavorare. Perché essere senza casa in America non vuol dire essere un barbone senza lavoro.
Non è una novità. Era così anche alla fine degli anni ’80, quando la Casa bianca di Ronald Reagan tagliava i fondi per il welfare. Questa volta però il colpevole non è un presidente ma la Grande Recessione, e la qualità della ripresa economica che l’ha scacciata. Gli anni più bui sono ormai alle spalle, la disoccupazione è scesa addirittura al 5 per cento, i consumi sono tornati a crescere. Ma le ferite non si sono richiuse e il ritorno degli homeless, sui marciapiedi di New York, come su quelli di Los Angeles o di Seattle, sono il segno più visibile, se non il più profondo, del fatto che i conti non tornano. Ora i sindaci si stanno muovendo, cercano di correre ai ripari. Così il 2 di novembre nella capitale dello stato di Washington, dove nel solo 2014 ben 64 persone sono morte per la strada, è stato dichiarato uno stato di emergenza per i senza casa, e lo stesso era stato fatto, a fine settembre, un mese prima, a Los Angeles, nella cui contea si calcola che ogni mese finiscano per strada in 13mila, con una crescita, negli ultimi due anni, del 12 per cento. Ancora peggio del resto è la situazione a Madison, capitale del Winsconsin, dove dal 2011 ad oggi, gli homeless sono quasi raddoppiati, visto che il tasso di crescita è stato del 40 per cento. Ma se il dramma è più visibile nella grandi città, dove cercano rifugio le famiglie più povere, il panorama è lo stesso anche nel resto del grande paese. Perché ovunque, come dice Bernie Sanders, la ripresa vuole troppo spesso dire soltanto «giornate di lavoro più lunghe per salari più bassi». E il vecchio socialista, oggi candidato della sinistra alle primarie del partito democratico, non è certo l’unico a pensarla così. Come dicono le battaglie sulla minimum wage, il salario minimo stabilito per legge. Negli ultimi 4 anni sono divampate in tutto il paese. Scioperi e picchetti davanti alle grandi catene, da McDonald ai supermercati Walmart, hanno chiesto e spesso ottenuto aumenti salariali, calcolati negli Stati uniti su base oraria e fermi, dal 2009, a 7 dollari e 25 centesimi. Spingendo all’azione anche gli stati e le grandi città. A New York, da metà settembre, si è saliti a 15 dollari all’ora per i lavoratori dei fast food e per i 10 mila impiegati dello stato, come da questa estate è successo nelle università della California, ma altrove, ad esempio nel Maryland ci si è spinti giusto ad aggiungere un dollaro, arrivando a un misero 8 dollari e 25 centesimi. Meno di quanto, da due anni, sta chiedendo la Casa Bianca. Perché in effetti, più che il sindacato, o meglio quel che resta delle Union (che oggi rappresentano soltanto il 6,6 per cento di chi lavora nel settore privato, il 37 nel pubblico impiego), sono stati Barack Obama e il partito democratico, i suoi sindaci e i suoi governatori, a schierarsi a fianco dei lavoratori. Così come ora fanno tutti i candidati delle primarie democratiche. L’ultimo dibattito televisivo si è tenuto il 6 novembre, in South Carolina, alla Winthrop University, condotto dalla paladina del giornalismo liberal, Rachel Maddows. Che invece di moderare il faccia faccia tra i 3 contendenti, (è ancora in campo, anche se in coda nei sondaggi, anche Martin O’Malley, ex governatore del Maryland), ha realizzato una serie di interviste di approfondimento. E per la prima volta, con decisione, Bernie Sanders è andato all’attacco di Hillary Clinton. Con il suo stile signorile, senza mai nominarla, e più sulla politica estera, dalla guerra in Iraq del 2003 all’invio ora di truppe speciali in Siria, molto meno sulle questioni economiche e sociali. Perché è vero che, se si guarda alla sua lunga carriera politica, ai suoi voti al senato più che ai suoi rapporti con il mondo di Wall street, questo è un terreno su cui la grande favorita è stata spesso e volentieri più aperta e più impegnata di Barack Obama. E del resto c’è un punto, chiave, condiviso ormai da gran parte del partito democratico, ovvero la necessità di intervenire presto e con forza sulla forbice della diseguaglianza economica esplosa negli anni della Grande Recessione e ancor più in quelli dell’iniqua ripresa. Anche se non è poi detto che i programmi e le ricette economiche siano, ovviamente, gli stessi. Né tra i contendenti delle primarie, né nel paese. Come dimostra la storia degli homeless di New York. Eletto due anni fa, Bill De Blasio, uno dei campioni dei progressisti americani, aveva subito posto la triste storia dei senza casa in cima alla lista delle cose da risolvere. Il suo programma, Living in Communities, stabilisce sussidi e bonus per ridurre gli strabilianti prezzi degli affitti. Una strada difficile però, vista l’ostilità di tanti proprietari di case, e gravosa per le casse della città. Soprattutto da quando, nel 2011, Andrew Cuomo ha pesantemente tagliato, di ben 65 milioni di dollari i fondi statali per gli homeless. Una mossa capestro, compiuta in nome dell’austerità, che ha portato con sé anche la fine dei contrubuti federali. Figlio del primo governatore italoamericano dello stato di New York, anche lui è un democratico, eletto per ben due mandati. Ma per l’appunto ne rappresenta un’anima diversa, moderata e spesso, come in questo caso, rigorista. Quella che oggi appare minoritaria, quantomeno nella corsa delle primarie. Ma che certo si farà viva l’anno venturo, nella battaglia per la Casa Bianca.