Dal 1982, quando John Rambo è arrivato -a piedi, sacca militare in spalla- sul ponte che porta a Hope (in italiano «speranza») l’inferno è sempre stato un luogo centrale della sua mitologia. Prima di tutto quello interiore («Rambo è una macchina da guerra che non si può spegnere», secondo Sylvester Stallone, nel 1985) e poi quello dantesco di sangue, viscere e violenza che, nel rituale in crescendo interno ai singoli film e alla stessa franchise, ha portato il leggendario veterano del Vietnam dall’America reaganiana a quella di Trump. Immerso in brandelli splatter di miliziani burmesi e missionari cristiani a Myanmar, il finale di Rambo (quarto capitolo della serie, uscito nel 2008, in cui il nostro eroe si era ritirato in Tailandia sotto le spoglie di un battelliere/caccia serpenti) era così iperbolico da farti sognare una doccia. Un’esperienza Virtual Reality senza bisogno del casco.

IN «LAST BLOOD», il ritorno di Rambo, su sceneggiatura di Stallone, con Matthew Cirulnick, e diretto da Adrian Grunberg (assistente alla regia dell’ultimo Wall Street e di Apocalypto) l’inferno rambesco assume un’ulteriore dimensione letterale: un sistema di gallerie attrezzate di trappole micidiali pronte al massacro, scavato sotto la superficie ignara dell’Arizona. È lì che Rambo ha trovato casa -dopo il lungo, movimentato, esilio nel sudest asiatico e il detour afgano – in una fattoria isolata che apparteneva a suo padre, fronteggiata da un ampio portico e piena di cavalli, dove vive insieme a un’amica chicana, Maria Beltran (Adriana Barranza), e a sua nipote Gabriela (Yvette Monreal).

Nonostante il tunnel dell’orrore che si è fabbricato sotto il ranch e dove Gabriela porta in visita amici attoniti durante una festa di compleanno, Rambo sembra avviato verso una vecchiaia pacifica, all’insegna di un regime familiare multietnico -il famigerato coltello «appeso a un chiodo», il background nelle forze speciali usato a beneficio di incauti turisti inghiottiti da un torrente di fango. Ma, si sa, Rambo è il lato oscuro della parabola solare seppure malinconica di Rocky (il gremlin dantesco dell’ET spielberghiano): per quelli come lui non c’è pace. E tutta la sua ferocia e la sua irredimibilità hanno modo di manifestarsi quando Gabriela, in trasferta messicana alla ricerca di quel poco di buono di suo padre, finisce prigioniera di un cartello della droga, forzata alla prostituzione e imbottita di droga.

PREVEDIBILMENTE  tra l’ex militare statunitense e i criminali d’oltre confine è una gara a chi è più sadico (come quello di Mel Gibson, il sadomasochismo di Stallone aumenta con gli anni ). E il gran finale avviene nel ranch.
Oltre che il suo lato oscuro, Rambo è anche il lato scomodo di «Sly», quello indigeribile (mentre la franchise di Rocky è oggi saldamente custodita nelle mani rispettabili della Warner Brothers, Rambo è ancora appannaggio di Avi Lerner e Lionsgate, indipendenti sul viale del tramonto nell’economia delle piattaforme streaming,).

Last Blood (il cui finale non esclude la possibilità di altri sequel) è stato stroncato dalla critica Usa con un accanimento che aveva risparmiato il quarto capitolo e che è colorato dall’aria del tempo. Accusato (specialmente in Rambo 2 – La vendetta) di essere un eroe reaganiano, oggi Rambo diventa un eroe trumpista – l’incarnazione fisica del muro presidenziale, secondo un critico. Rispetto alla paternalistica versione arthouse del confine in un film come Babel (Adriana Barranza, in una parte molto più stereotipata di questa) o quella patinata, costellata di star, di un Sicario, Last Blood è un bersagliofacile- un film crudo, cattivo, brutale, «stanco», che avrebbe sicuramente beneficiato di un occhio più fresco. Un dinosauro. Ma un dinosauro che viene voglia di difendere alla luce dell’alzata di scudi perbenista che lo ha accolto.