Il fascismo sta tornando? Ma se non se ne è mai davvero andato del tutto… Potrebbe apparire un paradosso quello che emerge implicitamente dalle pagine di L’ombra lunga del fascismo (Solferino, pp. 414, euro 16,50), il volume firmato dal politologo dell’Università di Perugia Alessandro Campi insieme al giornalista del Corriere della Sera Sergio Rizzo che esce alla vigilia di elezioni che sembrano interrogare come mai prima il peso che il passato del Paese può giocare ancora nel suo presente. Il paradosso lascia però spazio a ben altre considerazioni man mano che ci si addentra in compagnia dei due autori attraverso metropoli e cittadine dove la toponomastica, i simboli e gli edifici parlano ancora il linguaggio del Ventennio, dove il merchandising della nostalgia non conosce confini e dove, infine, un «cuore nero» batte ancora anche in Parlamento. Per Rizzo e Campi, che ha accompagnato a lungo il percorso della destra politica e culturale, è però venuto il momento per il Paese di «chiudere una volta per tutte la partita con quel passato». Una necessità che deve essere fatta propria in particolare anche da «chi ha grandi responsabilità politiche e nonostante ciò persevera nel tollerare nostalgie e pericolosi ammiccamenti».

Questo libro che ricorda come per certi aspetti l’Italia appaia «ancora ferma a Mussolini», esce alla vigilia di un voto che potrebbe fare dell’ultimo partito erede dell’Msi, nato in continuità con il regime, la prima forza politica del Paese. Un contesto che evoca la nota interpretazione di Piero Gobetti che parlava del fascismo come «autobiografia della nazione»?
Credo poco alle letture della storia italiana in chiave di antropologia o psicologia collettiva. Non esiste un carattere degli italiani che li spinge verso l’autoritarismo: ieri Mussolini, oggi Meloni. Gli italiani che hanno fatto nascere il fascismo e lo hanno sostenuto sono gli stessi, in senso storico, che lo hanno combattuto e hanno poi dato vita alla democrazia repubblicana. C’è semmai un cattivo rapporto degli italiani col passato, che si tende continuamente a strumentalizzare. Quell’esperienza non ritornerà mai, come qualcuno teme a sinistra, e di quell’esperienza non c’è nulla da riprendere come lezione, come qualcuno ancora immagina a destra. Il senso del libro è che si dovrebbe consegnare il fascismo alla storia una volta per tutte. Le sue testimonianze visive sono ancora tra noi, sono in alcuni casi parti del paesaggio urbano, ma non si dovrebbe più assegnare loro alcuna valenza emotiva o forza evocativa. Li si dovrebbe trattare come simboli muti, come testimonianze di un passato che tanto non possiamo cancellare, ma che non ci appartiene più.

Dal libro emerge la definizione di «fascismo pop» che sembra adeguata a definire quel misto di scarsa consapevolezza della Storia, intenti auto-assolutori e banalizzazione di vicende drammatiche rilette in termini esclusivamente emotivi che pare essere alla base del modo in cui nel nostro Paese si guarda alla vicenda mussoliniana.
La banalizzazione del fascismo, ridotto a regime da operetta con Mussolini nei panni del capocomico, è stato il capolavoro ideologico di Montanelli. Una lettura che ha avuto in effetti una grande presa per decenni. Nel dopoguerra un’intera generazione doveva giustificare se stessa per aver preso sul serio il rivoluzionarismo fascista e per aver sostenuto più o meno attivamente il regime. Componenti significative del moderatismo politico e culturale scelsero, per autoassolversi, la spiegazione dell’abbaglio generazionale. La loro unica colpa era quella di aver preso sul serio un capocomico e di aver creduto che il fascismo fosse un’ideologia mentre invece era un tubo vuoto. Al massimo avevano aderito al regime per amor di patria. Il fascismo è diventato così una miniera di aneddoti e di storielle da rotocalco, lasciando sullo sfondo le tragedie da esso provocate (guerre, colonialismo, leggi razziali). È quello che chiamo «fascismo pop o light», che ancora persiste come idea in certi segmenti della società italiana. Oggi si è però arrivati all’interpretazione opposta. Dalla banalizzazione alla demonizzazione: un errore speculare. Il fascismo, in questo caso, come via italiana all’hitlerismo e alla Soluzione finale. Ma entrambe queste letture sono, per quel che mi riguarda, caricature della Storia, diversamente dannose, nel senso che contribuiscono a definire un clima d’opinione segnato da un rapporto con il nostro passato emozionale, puramente soggettivo e strumentale, insomma falso e deformante.

In questa situazione ritiene che l’approdo ad una sorta di pieno «sdoganamento» degli eredi del Msi, e per questa via del fascismo almeno sul piano simbolico, sia più il frutto del successo della strategia di tali forze o del ruolo dei media, del dibattito, o dell’assenza di dibattito, storico complessivo, dello scarso peso che ha il lavoro degli storici presso l’opinione pubblica e via dicendo. A cambiare è stata più la società o la comunità riunita intorno alla fiamma?
Difficile essere nostalgici credibili di un regime che non si è mai conosciuto. Il primo fattore di cambiamento a destra è stato biologico: sono scomparsi, strada facendo, i sopravvissuti della Rsi rimasti fedeli per cinque decenni al mito mussoliniano. Nel frattempo è cambiato il costume collettivo e dunque sono anche cambiati i riferimenti culturali e simbolici. Meloni e gran parte del suo attuale gruppo dirigente sono cresciuti leggendo le saghe tolkieniane, non Gentile, Evola o Adriano Romualdi. Nelle loro sezioni tenevano il poster di Borsellino non quello di Leon Degrelle o di José Antonio, come la generazione di attivisti immediatamente precedente. Infine è cambiato il mondo: con la fine della Guerra fredda e la caduta del blocco sovietico anche l’anticomunismo militante è diventato anacronistico a destra. Non a caso, a cavalcarlo per due decenni è stato Berlusconi piuttosto che Fini. Il cambiamento, lento e ancora forse non del tutto compiuto, c’è insomma stato, almeno nei ranghi della destra istituzionale. Permane poi una galassia di estrema destra, gli energumeni tatuati, rasati e vestiti di nero che sono la gioia di molti talk show, ma mi chiedo che forza politico-elettorale abbiano davvero. Culturalmente si limitano a rimasticare il simbolismo fascista in chiave di razzismo bianco e anti-islamico. Ma come aveva già spiegato Renzo De Felice il radicalismo di destra ha sempre attinto più al nazionalosocialismo che al mussolinismo. È un mondo che si compiace dell’alone diabolico e maledetto che lo circonda. Una buona gestione dell’ordine pubblico dovrebbe essere sufficiente, in un Paese serio, per tenere a bada queste frange.

La destra del dopo Fiuggi puntava sul superamento anche simbolico del passato, mentre in Fratelli d’Italia riemergono i saluti romani, la «lobby nera» raccontata da Fanpage e quella fiamma nel simbolo che non si vuole rimuovere. Siamo di fronte ad un ritorno indietro rispetto all’evoluzione che era in corso? Perché la linea di Meloni è così arretrata rispetto a quella di Fini?
Mi sbaglierò ma Meloni è più in linea col «finismo» di quanto sembri e di quanto lei stessa ammetta pubblicamente. A destra, dopo la traumatica rottura con Berlusconi seguita allo scioglimento in effetti fallimentare di Alleanza nazionale nel Popolo della libertà, su Fini si è impresso il marchio del traditore. Un’ingiustizia storica, ma tanto basta per non voler rivendicare quell’esperienza all’interno della quale Meloni si è però interamente formata e senza la quale sarebbe per davvero una specie di Almirante più giovane e con la gonna.

Su questo terreno emerge un altro elemento: pur con tutti i limiti, vent’anni fa Alleanza nazionale rifiutava ogni legame con Le Pen e diceva di guardare a Sarkozy e, storicamente, addirittura a De Gaulle. Oggi nel pantheon della destra ci sono Vox, Orbán e, prima dell’invasione dell’Ucraina, Putin. Sostenere chi evoca la «democrazia illiberale» non riguarda il rapporto con il passato, quanto piuttosto una visione per il presente?
C’è stato un cambiamento importante negli ultimi quindici anni: la crescente radicalizzazione della destra conservatrice e della sinistra progressista. Gli Stati Uniti ne sono l’esempio più lampante. Dalle divisioni sull’economia o sui modelli di società si è passati allo scontro sui temi identitari e valoriali. Lotta al terrorismo, crisi economica globale, pandemia e ora la guerra hanno acuito le tensioni sociali, indebolito i partiti tradizionali e favorito la demagogia anti-sistema cavalcata dai leader populisti. Meloni spesso oscilla tra appelli alla piazza e conservatorismo istituzionale, ma se dovesse andare al governo certe ambiguità non sarebbero più possibili. Quelle sul piano del collocamento internazionale le ha già risolte. Deve ora sciogliere i nodi in Europa: l’Italia deve avere come alleati e interlocutori Francia e Germania, non l’Ungheria.

La prossima settimana lei prenderà parte alla conferenza «Italian conservatism», organizzata a Roma da Nazione futura, associazione vicina a Fratelli d’Italia, intervenendo ad un colloquio dal titolo «Una nuova egemonia culturale» cui partecipano anche Marcello Veneziani e il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano. Come definirebbe oggi le coordinate della cultura di destra?
Ci sono in realtà anche molti ospiti stranieri. Spero non diventi l’occasione per parlare di una «internazionale nera» che si riunisce a Roma con chissà quali pericolosi obiettivi. Personalmente, argomenterò contro qualunque forma di «egemonia culturale». Il problema per la destra è più semplicemente quello di avere una sua riconoscibilità sociale e culturale a partire da alcuni temi cruciali. Penso, tra le altre cose, alla nazione come spazio di agibilità della democrazia politica, alla difesa della tradizione storica contro la cultura dell’oblio e della cancellazione, ad un ecologismo intriso di valori umanistici, allo Stato come garante della giustizia sociale e alla cultura dei limiti e dei doveri contro il soggettivismo radicale.