I tram da Sultanahmet attraversano il Ponte Galata e una volta dall’altra parte si può camminare fino a Galata stessa o prendere la funicolare che porta all’inizio di Istiklal Caddesi. Lì, lungo l’affollatissimo corso, i tram d’epoca viaggiano da e per Piazza Taksim. Lo scorso maggio 2012 chi scrive restò di sasso. Un tram giallo avanzava irradiando techno a volumi impensabili. In una carrozza il dj, nell’altra i passeggeri. Nell’aria un senso di vivacità e euforia insopprimibile. Oggi la musica è un’altra. Con il clamore dei tafferugli e degli sgomberi che attraversano Istanbul e altre città turche. Con – a oggi – oltre venti notti di scontri, lacrimogeni e cannoni ad acqua governativi contro i manifestanti riuniti a piazza Taksim e a Gezi Park, i due luoghi simbolo delle proteste turche. Secondo gli avvocati turchi fino a domenica scorsa erano circa 600 le persone fermate dalla polizia ad Istanbul e Ankara. E il numero cresce. Di pari passo con una musica divenuta la colonna sonora inarrestabile della rivolta, con gruppi e stili che dalla Turchia rimbalzano su blog e quotidiani di tutto il mondo, su tutti il Guardian che ha seguito dall’interno le onde sonore della protesta e il New York Times che di recente ha intervistato Davide Martello, un altro dei simboli della protesta turca. Il musicista ha allietato per ore le masse di piazza Taksim con un pianoforte letteralmente incardinato dentro quell’enorme folla, finché la polizia gli ha confiscato lo strumento. Solo per un miracolo l’artista tedesco non è stato arrestato. Come lui tanti musicisti locali hanno rischiato di finire dentro.

Su tutti Serhat Köksal, alias 2/5BZ, nome di riferimento della electro turca che per scampare ai gas lacrimogeni ha inciampato e si è spezzato le braccia. Secondo Köksal «questa è una lotta di popolo, battersi contro lo stato significa battersi per la dignità umana». Gli fa eco Barkin Eklin dei Replikas, gruppo alternative rock, che intervistato dal Guardian rilevava come «la riprogettazione di Taksim Square e la distruzione di Gezi Park da parte della amministrazione Erdogan sono solo la punta dell’iceberg. Il parco è diventato un simbolo di resistenza ma dietro c’è dell’altro». Ad esempio una progressiva limitazione della libertà di espressione, il giro di vite sugli alcolici, la privatizzazione di molti spazi pubblici, la questione dell’aborto, una crescente islamizzazione. Inizialmente i tanti musicisti di Istanbul hanno partecipato alle proteste a titolo individuale, offesi e allarmati da tanta brutalità da parte delle forze dell’ordine; poi la solidarietà ha saldato tra loro artisti e stili.

«A lungo ci siamo sentiti impotenti, senza speranza, proprio in quel momento abbiamo pensato che saremmo dovuti scendere in strada». Parola di Ekin Sanaç, del duo electro Kim Ki O il cui recente disco Grounds si confrontava con una depressione esistenziale avvertita ben prima delle proteste. La scintilla in Turchia è scoccata quasi un mese fa quando la polizia ha attaccato gli ambientalisti e pacifisti che occupavano Gezi Park, proprio a ridosso di Taksim, un micro polmone verde, uno degli ultimi rimasti nel distretto di Beyoglu. Lì è successo tutto, una generazione che fino a quel momento si era sfilata dalla politica, si è ritrovata in strada, catapultata in un antagonismo di base che atterrisce il governo. Prima che la polizia si riprendesse piazza Taksim e Gezi Park, quest’ultimo si era trasformato in un suono continuo, un’arsione liberatrice, un laboratorio di spinte fai da te, «una nuova cultura di resistenza. Questo è punk rock», ha dichiarato Sanaç. Non solo. Anche in un rimando ad antichi festival controculturali, con sciami di hippy acciambellati intorno ai loro bonghi, sound system pronti a irradiare melodie locali, chitarristi di protesta, percussionisti infaticabili, gruppi folk, ballerini pronti a inscenare indimenticabili danze con addosso le maschere antigas. Le mobilitazioni hanno sollecitato una teoria di canzoni di protesta anche se la più nota Eyvallah, dei Duman era stata scritta prima del grande caos. Si parla di brutalità della polizia, manganelli, gas urticanti. E poi le pentole e tutto quegli utensili da cucina spesso utilizzati nelle proteste di strada. Storica la cacerolada argentina del 2008 a Plaza de Mayo contro la Presidenta, Cristina Fernandez de Kirchner, e il suo governo. Mestoli e pentole chiedevano che venissero ripristinati i rifornimenti di carne, latte e verdure bloccati da agricoltori che a loro volta protestavano per la decisione di aumentare le tasse sulle esportazioni di soia. Ancora più storica un anno dopo la rivoluzione delle pentole e delle padelle in Islanda in cui si chiedevano le dimissioni del primo ministro e la rivisitazione della costituzione. Fino al nostro paese in cui hanno sonorizzato le proteste contro l’amministrazione Vignali a Parma, inghiottita da errori, corruzione e malaffare. Le pentole risuonavano anche dai balconi delle case di Taksim accompagnando la marcia dei manifestanti nelle strade sottostanti. Questa euforia inarrestabile ha indotto la band Kardes Türküler a comporre The Sound of Pots and Pans, Il suono di pentole e padelle: «Che succede a questa nostra città? Che danno, che dolore, che gas è questo?».

Uno dei pezzi più visti su YouTube è Every Day I’m Çapuling, un collage di immagini dalla rivolta con un manifestante che fa moon walking con tanto di maschera antigas e poi folla festosa che danza, tambureggia, rumoreggia, sfida gli idranti, canta. Il frammento – montato sulla base di Party Rock Anthem degli Lmfao – è un chiaro attacco a Erdogan che ha definito i manifestanti çapulcar, saccheggiatori. Già prima del golpe militare dell’80, la Turchia aveva dato vita a un forte cantautorato di protesta. Con voci come Selda Bagcan o Cem Karaca, protagonisti degli anni Settanta. Con l’arrivo dell’esercito la prima sarebbe finita spesso in carcere mentre il secondo avrebbe volontariamente imboccato la via dell’esilio. I loro pezzi sono riaffiorati in raccolte come Istanbul 70 oppure sotto forma di campionamenti (il rapper Mos Def ha omaggiato Bagcan). Ovviamente la decontestualizzazione ha spogliato la maggior parte dei brani della loro carica antagonista. Si era anche pensato a un festival imperniato su quei nomi, «sul passato», ma le fasce più giovani sono insorte: questa Istanbul è il palco di tutti. E intanto tra i musicisti traspare il senso di una vittoria collettiva, di un risveglio; le stesse urgenze compositive che spesso caratterizzano quegli spiriti del tempo in cui si palesano aspri conflitti politici e sociali. Dalla Pantera del ’90 al recente movimento Occupy. Ognuno trova la sua rappresentazione più consona. Racconta Orçun Bastürk, batterista dei Replikas: «C’è intorno un senso di libertà; le persone hanno perso le loro paure. Non sappiamo alla fine cosa succederà, ma questa consapevolezza esisterà a lungo». Come un virus che si va diffondendo, che ha superato concettualmente la persona di Erdog(an e punta avanti, si interroga sull’idea di autorità, media, società, parità dei sessi; insomma una lunga primavera turca a cui la musica fa da sottofondo. Berna Göl delle Kim Ki O aggiunge: «Per la prima volta le donne sono sulle barricate con gli uomini e sono pronte a tutto. Non è mai successo prima». L’onda non si arresta, è la stessa di piazza Piazza Tahrir, con le stesse prospettive, le stesse incognite, gli stessi timori. Ma con una certezza. Quella di Gökçe Gürçay dei folk rocker Gavende: «Un mese fa parlavamo di dove migrare, ora sappiamo che qui c’è un futuro». Almeno per il momento.