«Componevo canzoni per piacere, oggi al coro presbiteriano il maestro dice che canto bene… ». Parla in inglese quasi sempre quell’anziano signore che vive tra i boschi e i laghi del l Vermont. Eppure è italiano, ma l’Italia come spiega a un certo punto gli ha fatto troppo male, tanto da rimuovere la lingua che si dice «materna». E l’America, dove è arrivato migrante con green card grazie al matrimonio con un’ italo-americana conosciuta sulla nave da crociera dove lavorava, gli ha permesso di cancellare il suo passato. Era un fascista repubblichino, a 14 anni è un «Risoluto» nella X Mas di Junio Valerio Borghese, il principe alleato dei nazisti, sempre graziato, protetto dai servizi americani, ideatore del golpe nero in Italia nel ’70, v icino a Gladio, figura chiave per capire bombe e stragismo de disegni di geopolitica nerissimi che cominciano alla fine della guerra, lasciando il fascismo abbattuto prosperare in Italia.

Non è però lui il protagonista di questa «lezione di storia» che costruisce in quattro atti Giovanni Donfrancesco  nel suo film Il Risoluto, presentato alla Mostra di Venezia 2017, alle Giornate degli autori, stasera su Fuori orario (Rai3, 1,05) insieme al suo precedente Stone River (2013)nella versione lunga originale.

DAVANTI alla sua macchina da presa c’è Piero Bonamico, genovese, nato nel ’29, il regista lo aveva conosciuto nei boschi del Vermont proprio mentre girava Stone River riuscendo a convincerlo di affidargli la sua storia di cui nessuno sa nulla, neppure la moglie. Il dialogo tra i due avviene attraverso molti giorni, e quasi tutto nella casa, punteggiato da passaggi veloci di vita quotidiana e domestica, l’orto, la moglie che inforna la cena, qualche giro in macchina, secondo il ritmo voluto dall’interlocutore che si mostra e si sottrae, avanza un po’, sempre guardingo, tace sopraffatto dal senso di colpa, poi dice tutto senza timori di giudizio, e però si incazza quando Dongiovanni gli fa notare che ha cambiato versione: «Vuoi che faccio un errore? Adesso basta» si chiude mentre il regista continua a girare. O ridendo gli canta Giovinezza – e gli chiede: «La conosci? No sei troppo giovane».

LA TATTICA del regista – che è la cifra del film – è l’ascolto consapevole, con presa di distanza ma mai «giudicante» che gli permette di scoprire – e di farci scoprire – ciò che le versioni ufficiali hanno distorto. O taciuto. Per esempio: dove è finito l’oro di Dongo, ovvero il tesoro di Mussolini?
La giustizia partigiana (l’amnistia di Togliatti non aiutò l’Italia a essere un Paese migliore) aveva graziato Bonamico: «Un ragazzo come te non doveva finire in questo inferno» gli dissero, anche se era uno di quelli convinti, aveva rapinato, ucciso, torturato, picchiato socialisti, comunisti, ebrei, anarchici, antifascisti. «Obbediva agli ordini» – certo – e però ancora oggi, cioè al momento del film perché nel frattempo Bonamico è morto, palesava al di qua del pentimento un certo orgoglio ripensando a quel vissuto che lo aveva reso, suo malgrado, protagonista della storia e dei suoi orrori.

E l’oro di Dongo? C’erano cinque valigie piene di «Corrierini dei piccoli» che furono scambiate a Milano con altrettante valigie piene di soldi gioielli e lingotti e il 22 aprile del 1945 furono nascoste nell’arcivescovado di Milano dal Cardinale Schuster, grande amico di Borghese, il quale se le sarà fatte ridare ricorda Bonamico. Ma non aveva detto lui stesso poco prima che l’Italia