«Sopprimere la lontananza uccide. Non di altro gli dèi muoiono che dello stare in mezzo a noi», scriveva René Char in uno dei suoi frammenti, che Maurice Blanchot interpretava in relazione al senso della parola poetica e, più in generale, della vita. Il poeta, osservava Blanchot, deve fare attenzione a non avvicinarsi troppo a quel mistero indicibile che la poesia, per sua natura, indaga ed esplora: deve aspirarvi ma non deve mai davvero raggiungerlo, perché il mistero – se raggiunto e catturato – verrebbe automaticamente meno.

E LA POESIA STESSA, di conseguenza, perderebbe altrettanto automaticamente la propria ragion d’essere. Così anche l’essere umano, della vita, deve rispettare l’inafferrabilità: vivere senza pretendere di voler capire o spiegare tutto. Questo, secondo Blanchot, intendeva dire Char nel suo frammento. Ed è probabile che la lezione sia stata ben presente a Franca Alaimo, nella stesura di 7 poemetti: la sua ultima, toccante raccolta per Interno Libri Edizioni (pp. 76, euro 12). Salvo il fatto che tale lezione sembra qui completamente rovesciata (seppure non certo come presa di distanza da una poetica, quella appunto di Char, che per il resto Alaimo deve molto amare, se ne può essere pressoché certi): gli «dei» sono molto presenti lungo tutti i versi, ma l’autrice dimostra di non temere affatto la loro vicinanza. Anzi: lei stessa li invoca e li chiama esplicitamente fra noi. Non teme che muoiano, né di morirne. Ad esempio lo leggiamo subito, nel primo poemetto, in apertura della raccolta: «Vengono sempre gli dei se invocati,/ talvolta sotto forma di animali miti (…) vengono sempre gli dei sciolti nell’aria,/ nel sole, cadendo tra le dita, soffiando gioie/ con i venti d’Oriente ed Occidente». E la sovversione del frammento di Char non potrebbe essere più forte.

AL DI LÀ di qualunque invocazione esplicita, è l’intera raccolta ad apparire pervasa da una mescolanza continua fra il terreno e il divino, fra l’immanenza della vita incarnata e la trascendenza di un altrove: vuoi nei sette poemetti della prima parte, quella da cui scaturisce il titolo, vuoi nei «frammenti» più distesi e di forma libera della seconda. L’intera raccolta, come nota Giovanna Rosadini nella preziosa prefazione, è attraversata da un «sentimento di pietas», da una «connotazione religiosa nel senso più largo del termine»: perché alla fine quello che Franca Alaimo sembra voler dirci è che non esiste nessuna contraddizione fra l’una e l’altra cosa, fra dimensioni sacre e dimensioni profane dell’esistenza. La vita è sacra in sé stessa, nel bene come nel male; è innanzitutto nella vita ora e qui, in tutte le sue manifestazioni, nell’esultanza dei corpi come nelle loro mortificazioni, che il sacro va cercato e comunque celebrato. «Nulla ha riparo», è detto in due dei versi più belli, «se non nella vita stessa». No: Franca Alaimo non teme di affacciarsi sull’abisso, come Paul Celan diceva che il poeta deve sempre fare. E la lezione che i suoi 7 poemetti ci lasciano, più che mai, è che la vita è sempre «irrequieta» ma nondimeno non dobbiamo cessare di accoglierla «A braccia spalancate»: «spalancata» la porta, spalancati anche e soprattutto i nostri corpi.