Dakar, capitale del Senegal. Questa città africana di un milione e 150mila abitanti – affacciata sull’oceano – sarà al centro di fatti e riflessioni che connettono tre continenti uniti proprio dal «Black Atlantic», come lo ha definito il sociologo afrobritannico Paul Gilroy.
Il 6 dicembre 2018 (lo riportava Amandla Thomas-Johnson in un suo articolo per Al Jazeera) è stato aperto a Dakar il Museo delle civiltà nere che il curatore senegalese Babacar Mbow ha definito «senza pari al mondo». Il possente edificio, che ha la forma di un disco e ricorda le mura circolari delle maestose città medievali africane (costruito anche grazie a una donazione del governo cinese) rappresenta il coronamento di un sogno-progetto del primo presidente del Senegal libero, il poeta Léopold Sédar-Senghor. Nell’aprile del 1966 egli aveva proposto all’assemblea nazionale riunita a Dakar di varare il primo festival mondiale delle arti nere, aperto agli africani – che si stavano liberando dal pesante giogo coloniale europeo – e agli africani della diaspora, deportati a milioni nelle Americhe. Il presidente-poeta riteneva che l’arte e la cultura avrebbero dovuto essere al centro dello sviluppo del Senegal e presentò – insieme al festival – un progetto museale in grado di documentare e valorizzare quanto scaturito dalle esperienze dei neri in tutto il mondo. Il museo si sarebbe concretizzato solo dopo cinquantadue anni, al contrario del festival che ebbe varie edizioni.

LA VOCE DEL DUCA
Senghor, che conosceva bene gli Usa e amava il jazz, invitò Duke Ellington alla prima, commissionandogli un brano. A Dakar il compositore e bandleader soggiornò dal primo al 9 aprile 1966, avvertendo il peso di una responsabilità storica: quella di dar voce agli afroamericani in Africa e ritessere un legame lacerato dalla storia ma ricostruito e perpetuato dagli schiavi e dai loro discendenti, ancora in lotta per i propri diritti civili. «Ogni sera – annotava nella sua autobiografia Ellington -, al balcone al nono piano dell’Engar Hotel, mi siedo e ascolto il mare che canta le canzoni dello storico passato dell’isola da cui venivano imbarcati gli schiavi (è l’isola di Gorée, “per duecento anni è stata la prigione, il campo di concentramento nonché il porto d’imbarco degli schiavi africani diretti verso l’altro emisfero”, Ryszard Kapuscinski).) Più lontano, a distanza, posso sentire le tribù che si sono riunite in un’altra isola per provare il loro show del giorno successivo. (…) Dopo aver scritto musica africana per trentacinque anni, eccomi finalmente in Africa! Posso solo sperare che l’esecuzione di La plus belle africaine, che ho scritto in vista dell’occasione, abbia qualche significato per la gente che si è raccolta quaggiù». Il lungo, espressionistico brano possiede, in realtà, una forza travolgente ed ha piazzato nel suo «cuore» un ampio assolo di sax baritono di Harry Carney: è un autentico, perentorio, vivido manifesto sonoro africanista.
Il 27 dicembre 2018 a Dakar è accaduto un altro fatto, pieno di significati e «interno» a quanto si va raccontando. Il pianista e compositore afroamericano Randy Weston, che ha vissuto in Africa e realizzato la sintesi più ispirata e convincente tra jazz e radici del Continente Nero, è morto all’improvviso – novantaduenne – il 1° settembre a New York, dopo un tour europeo estivo che aveva toccato anche Roma. Tra le sue ultime dichiarazioni Weston aveva detto di stare scrivendo un libro sui rapporti tra la spiritualità africana, la musica e i luoghi, testo che si sarebbe aggiunto alla sua autobiografia African Rhythms (Duke University Press, 2010). Dopo varie commemorazioni dell’artista negli Stati Uniti e in Africa, il 27 dicembre la famiglia di Weston ha sparso le ceneri del pianista nel tratto di oceano Atlantico davanti a Dakar, nello stesso luogo dove erano state sparse le ceneri del figlio Azzedin, percussionista, morto prematuramente. La moglie, Fatoumata, ha scritto: «Ora riposa in pace, a casa».
Nell’ampio e policromo repertorio sonoro che Randy Weston ha prodotto dai secondi anni Cinquanta ci sono due tracce, profonde, che lo riconnettono al Museo delle civiltà nere e al festival internazionale delle arti nere di Dakar. Se, come ha dichiarato il curatore Babacar Mbow, il museo è un tentativo di «portare a compimento la decolonizzazione del sapere africano», questo processo è stato trainato nei decenni successivi all’indipendenza dallo storico e antropologo senegalese Cheikh Anta Diop. In particolare nel suo testo Civilisation ou barbarie. Anthropologie sans complaisance (1981) Diop sosteneva come l’Africa fosse stata la culla della civiltà mondiale e come ad essa avessero attinto i popoli della Grecia antica, attraverso l’Egitto di cui rivendicava l’africanità. Le documentate tesi di Diop erano state fonte di ispirazione per Weston, suffragate dagli anni vissuti in Africa a contatto diretto con artisti e società; il tutto fu ripreso e trasformato in musica dal pianista che addirittura dedicò allo storico Diop un suo brano (The Three Pyramids and the Sphinx nell’album Saga, 1995). «In Africa ho scoperto – ha scritto Weston – che cosa è veramente un musicista. Noi siamo storici e la nostra missione è raccontare alla gente la vera storia del nostro passato e contribuire ad una migliore visione per il futuro». L’altro filone è la conoscenza – sia da parte del pianista che di Duke Ellington, venerato come un «maestro» – di quanto fosse stato importante il movimento poetico-culturale della «négritude» nei decenni Trenta/Quaranta, movimento i cui principali alfieri furono il poeta (e futuro presidente) Léopold Sédar-Senghor, lo scrittore della Guiana francese Léon G. Damas e l’autore e militante martinicano Aimé Césaire.

COLONIZZATORI
Di certo le idee di Cheikh Anta Diop hanno ispirato anche la richiesta, da parte dei governi africani, di restituzione delle opere d’arte saccheggiate nei secoli dal continente africano e finite nei musei europei. Sempre nel dicembre 2018 il governo del Senegal ha ufficialmente domandato alla Francia la restituzione del proprio patrimonio artistico rubato dai colonizzatori, incoraggiato dal fatto che lo stato transalpino avesse dichiarato la sua disponibilità a cedere le opere a suo tempo trafugate dal Benin. Su il manifesto se n’è parlato il 29 dicembre con una corrispondenza da Parigi di Anna Maria Merlo e un corsivo di Marco Boccitto. L’antropologo Jean-Loup Amselle – intervistato da Merlo a proposito del timore dei musei francesi che con le restituzioni si aprisse una voragine nelle rispettive collezioni – ha risposto che «il Quai Branly (museo etnologico nato nel 2006, ndr) potrebbe fare una grande mostra sul modo in cui sono arrivate le opere, comprate a basso prezzo, saccheggiate durante gli anni coloniali, rubate. Permetterebbe di distendere le relazioni tra Francia, Europa e Africa. Un modo per riflettere sulla colonizzazione, quindi, non solo restituzioni ma anche un lavoro per ricordare al mondo come questi oggetti sono stati acquisiti». Dal canto suo Boccitto ricordava come nel romanzo Mumbo Jumbo (1972) del narratore afroamericano Ishmael Reed, ambientato negli anni Venti, «è difficile non fare il tifo per i mu’tafikah, guerriglieri dionisiaci che rubano dai musei occidentali le opere d’arte sottratte al sud del mondo per restituirle ai discendenti dei legittimi proprietari, quando non direttamente alla loro funzione originaria». E concludeva sulla complessa questione affermando che «come accade quando si immagina un futuro, il passato ha il suo peso e non è mai giusto dimenticarlo».
Sono parole adatte per annunciare il successivo legame, quello che unisce la négritude e il comunismo, la Martinica e la Corsica attraverso le figure di Aimé Césaire e di Jean Nicoli che hanno ispirato un riuscito ed emozionate cd: Danse mémoire, danse (Tuk Music, 2017), inciso dal trombettista Paolo Fresu, dal bandoneonista Daniele Di Bonaventura e dal coro corso A Filetta. Césaire e Nicoli sono accomunati dall’essere isolani, comunisti, uomini del rifiuto, contrari al colonialismo e alle sofferenze inflitte ai più deboli. Tredici brani originali tra cui spicca Africa (testo di Jean-Yves Acquaviva): «Io, terra che vide nascere l’umanità/Sono madre dei popoli, dei bianchi o dei neri/Il mio cuore trabocca di tanti tesori/Ma ciò che io bramo non lo possono comprare…».
Torniamo all’Africa, a Dakar, da dove siamo partiti, cantandola dal cuore del Mediterraneo con una «musica meticcia che non è di nessuno perché appartiene a tutti».

Nell’immagine un’opera conservata nel Museo delle civiltà nere di Dakar