C’è chi, sbrigativo, lo chiama «tagliando», chi vola alto e preferisce «rilancio», chi si attiene alla tradizione e non si scosta dal classico «rimpasto». Che sia nell’aria è un fatto e non da ieri. Se ne parla da mesi e i nomi ballerini sono sempre gli stessi. La ministra del Lavoro Catalfo, invisa agli stessi 5S e non si capisce perché essendo stata una delle migliori in campo. Il ministro D’Incà, nel mirino dei parlamentari grillini da un bel pezzo. Il pezzo forte, la ministra De Micheli, che il Pd pare giudichi poco adeguata e preferirebbe veder sostituita da Graziano Delrio. E poi naturalmente Lucia Azzolina, la cui dipartita metterebbe d’accordo sia i 5S da cui proviene che il Pd, per non parlare di Italia viva che scatterebbe cercando di piazzare Maria Elena Boschi. Ma soffiano venti gelidi, almeno stando alle voci che circolano nei palazzi, anche sulla titolare del Viminale Lamorgese, sul guardasigilli Bonafede, sul sottosegretario Fraccaro.

Il totoministri va sempre preso con le pinze e più che mai in questo caso, quando in forse non ci sono solo le caselle ma addirittura la scacchiera stessa perché sull’idea di rimpasto le resistenze non si contano. Alcuni dei nomi in circolazione sono, salvo sorprese stupefacenti, in realtà intoccabili. La ministra degli Interni è troppo popolare per metterla alla porta, senza contare il regalo che verrebbe impacchettato per il suo predecessore. Licenziare il capodelegazione 5S non è nell’ordine delle cose: potrebbe tutt’al più rischiare di perdere la guida della delegazione ma è poco probabile. Azzolina sembra la più fragile ma forse, data la copertura che le offre il premier, che l’ha voluta per non dire imposta all’Istruzione, è invece solidissima. In ballo davvero restano i pochi altri ministeri.

Sempre che il sipario si apra sul serio e non c’è partito di maggioranza al cui interno la pensino allo stesso modo. Di Maio frena a tavoletta: «Non sono i rimpasti e i ricambi che risolvono i problemi. È il lavorare pancia a terra». Rosato, Iv, ci crede invece: «Di fronte alla sfida che ci attende è necessario che la squadra sia adeguata: una riflessione va aperta». Il suo capo, Renzi, lo sconfessa: «Non si può continuare col dibattito stucchevole sul rimpasto. Su questo io e Rosato abbiamo opinioni diverse». Non che le parole dei politici in questi casi vadano prese alla lettera però.

Il vicesegretario del Pd Orlando, che ha provato a lanciare il sasso nello stagno, pare non sia riuscito a provocare un’ondina piccola piccola neppure nel suo partito. Nessuno raccoglie, nessuno rilancia, alcuni non mascherano il timore che in una costruzione così fragile toccare anche un mattoncino significhi far venire giù l’intero edificio. Ma tutti confermano che parlarne prima delle regionali sia sfasato. È difficile credere che l’uscita di Orlando sul «tagliando» sia una pensata non condivisa da nessuno. Al contrario è probabile che la necessità non di conquistare questa o quella poltrona ma di rafforzare una squadra che al momento, nella sfida del Recovery Plan, è ferma in panchina sia condivisa dallo stesso Zingaretti, che domenica ha lamentato i «troppi se e ritardi» del governo per sentirsi rispondere ieri da Conte che invece l’esecutivo «marcia veramente spedito». Ma quella del vicesegretario dem è stata una fuga in avanti.

Se il risultato delle regionali sarà devastante, 5 regioni alla destra e una al Pd, ma anche 4 a 2 qualora fosse persa la Toscana, la parola «rimpasto» sparirà dal vocabolario della maggioranza. A quel punto si tratterà di governare una situazione di panico, di tenere le briglie di un Pd nel quale il segretario finirà sotto assedio, di temperare l’impeto di un M5S che, in caso di vittoria del Sì al referendum, proverà a dilagare. Ma se il risultato non sarà proprio catastrofico, allora il rimpasto approderà in testa all’ordine del giorno. Con l’obiettivo non solo di ritoccare la squadra ma soprattutto di modificarne l’essenza accompagnando a Conte, sin qui nocchiero solitario e onnipotente, due vicepremier.