La regione marocchina di Rif sta esplodendo: da metà maggio le proteste sociali sono tornate sulle pagine dei giornali arabi, ma è da ottobre che la popolazione scende in piazza. Dalla morte di un venditore ambulante di pesce, Mouhcine Fikri, 31 anni.

Chiedono lavoro e sviluppo economico, chiedono giustizia per Fikri. È intorno alla sua immagine che il movimento si è radicato e ampliato. Mouhcine restò ucciso mentre cercava di recuperare un pesce spada che la polizia gli aveva sequestrato e gettato in un camion della spazzatura. Era entrato dentro il camion ed era rimasto schiacciato.

Una morte terribile: il video fece il giro di tutto il paese accendendo la rabbia della popolazione marocchina per l’ingiustizia subita da chi cercava di guadagnarsi il pane. A molti ricordò il 2011, le proteste di piazza contro re Mohammed VI e la richiesta – inevasa – di giustizia sociale.

Il governo tenta di correre ai ripari: la scorsa settimana il ministro dell’Interno Laftit è andato nella regione, a maggioranza berbera, per promettere sostegno all’economica locale, in particolare al settore della pesca.

Ma per ora la sola risposta è la forza: quaranta persone sono state arrestate dalla polizia (70 in tutta la provincia secondo la Moroccan Association of Human Rights), che ha cercato di fermare le proteste con pestaggi e gas. Ma le strade si sono riempite sempre di più.

Tra i detenuti c’è anche il leader di Al-Hirak al-Shaabi, “Movimento Popolare”, Nasser Zefzafi. Disoccupato, 39 anni, è stato arrestato lunedì dopo tre giorni di fuga con l’accusa di aver interrotto la preghiera in una moschea lo scorso venerdì per chiamare i fedeli a scendere in piazza. Secondo l’articolo 221 del codice penale, rischia dai sei mesi ai tre anni di carcere. Al momento si troverebbe a Casablanca.

Per tutti gli altri l’accusa, fa sapere il procuratore della città di al-Hoceima, è «minaccia alla sicurezza dello Stato». Ma non solo: le autorità marocchine imputano ai manifestanti di aver ricevuto denaro dall’estero e di portare avanti «attività di propaganda».

Venerdì sera erano 56mila a gridare «Siamo tutti Zefzafi» e «Basta militarizzazione», e di nuovo migliaia nelle sere successive. Martedì sera, subito dopo la rottura del digiuno del Ramadan, in migliaia sono scesi in piazza per chiedere la liberazione del leader: la polizia ha tentato di disperdere la folla, pacifica, senza riuscirsi.

E la protesta si allarga: da al-Hoceima a Nador e Tangeri fino a Casablanca, Marrakesh e alla capitale Rabat. E si amplia: dalla richiesta di maggiore giustizia socio-economica alla lotta contro la corruzione.

Perché se Rif ha una lunga storia di tensioni con il governo centrale, lunga più di un secolo e segnata da lunghe sollevazioni e conseguenti brutali militarizzazioni, è tutto il Marocco ad essere investito da difficili condizioni di vita, da un’economia che arranca.

Il 25,5% dei giovani non ha un impiego, di infrastrutture non ne sorgono se non a favore dei nuovi settori dell’elettronica e dell’aeronautica che arricchiscono – dice la base – solo le élite economiche.

Non a caso anche allora, quando Fikri morì, le principali città marocchine riempirono le piazza contro l’abuso delle autorità e le umiliazioni dei lavoratori. Soprattutto in una regione costiera come Rif dove si vive di pesca, in assenza di altre opportunità lavorative, ma dove il grosso della produzione è mangiato dalle grandi compagnie europee che esportano il pesce marocchino e allo stesso tempo producono così tanto da far lievitare i prezzi locali di due-tre volte.

A ciò si aggiungerebbe, dicono fonti locali, la minaccia delle autorità marocchine di distruggere migliaia di ettari di piantagioni di marijuana e di kif, ricavata dalla canapa.

Le montagne del Rif, duemila metri di altitudine, sono tra le principali produttrici di hashish al mondo (il 40% della produzione mondiale, dicono le stime), un settore che dà lavoro a 800mila persone.

Ora Rabat prova a sradicarlo: se la produzione è stata legale fino al 1974, un regio decreto l’ha poi bandita, aprendo a campagne di arresti, migliaia. Ma resta una delle fonti di sussistenza della popolazione delle montagne, ai margini.