Il Consiglio europeo di oggi e domani si svolgerà «in presenza», cioè i capi di stato e di governo dei 27 saranno personalmente a Bruxelles per partecipare al decimo summit dell’anno.

Poteva essere fatto sotto forma virtuale, come è successo da marzo a giugno? In effetti, non ci sono decisioni importanti da prendere. Ma non solo oggi i leader ascolteranno dal negoziatore Michel Barnier lo stato di avanzamento del negoziato per la Brexit, mentre il tempo stringe per evitare un no deal alla scadenza del 31 dicembre prossimo. Soprattutto, c’è una questione centrale che non è in agenda, ma che sarà oggetto di discussioni nei corridoi: il Recovery Fund.

Come per la Brexit, anche qui il tempo stringe, l’accordo di luglio sul piano da 750 miliardi è ora in via di traduzione nei testi giuridici e tutto deve essere pronto per entrare in atto il 1° gennaio 2021. Ci sono anche appuntamenti democratici: il voto del Recovery Fund nella maggior parte dei parlamenti degli stati membri (sono in alcuni non è richiesto questo passaggio).

L’Europarlamento deve votare e lega la sua approvazione al rispetto dello stato di diritto e anche a un chiarimento sulla quantità dei fondi e sulle risorse proprie per trovarli. Ci sono degli ostacoli che rischiano di bloccare il procedimento, a cominciare dalla minaccia di ricatto di Ungheria e Polonia, che vogliono a tutti i costi slegare il versamento dei finanziamenti dal rispetto dello stato di diritto. Per avere un maggior spazio di manovra, al Consiglio europeo viene evitata una discussione formale sulla questione della condizionalità del Recovery Fund, per non riaprire la discussione che aveva infiammato il vertice dello scorso luglio.

Il Consiglio ha già preso posizione sulla necessità del rispetto dello stato di diritto, cioè dei valori fondativi della Ue, ma martedì, al consiglio Affari generali, Ungheria e Polonia si sono di nuovo dissociate e hanno respinto la condizionalità. I due paesi sono però sempre più isolati. Il gruppo di Visegrad, il V4 (Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica ceca) è ormai spaccato. Di fronte alla proposta di compromesso della presidenza tedesca sulla condizionalità dei finanziamenti del Recovery Fund, Slovacchia e Repubblica ceca non hanno seguito il voto negativo di Polonia e Ungheria e si sono allineate alla grande maggioranza dei paesi Ue. Pochi giorni prima, Bratislava e Praga avevano anche respinto la proposta di Budapest e Varsavia di fondare un non meglio precisato Istituto di diritti comparato, che avrebbe avuto il compito di scovare il non rispetto dello stato di diritto negli altri paesi Ue, per meglio giustificare le proprie decisioni sulla messa al passo della giustizia o sul controllo governativo sui media.

Sulla Brexit, per la Ue, anche se il tempo stringe, non c’è nessun ultimatum, come ingiunge Boris Johnson: bisogna trovare un accordo il più in fretta possibile, per rispettare i tempi democratici del voto ed essere pronti ad avere un accordo entro il 31 dicembre.