Fu alla presenza del poeta, seduto in prima fila con Ines sua sorella e vestale, che il 3 ottobre del 1975 si aprì a Cesenatico con un memorabile saluto di Gianfranco Contini il convegno su chi allora novantenne era il decano degli autori italiani, Marino Moretti, il cui festeggiamento avveniva a pochi metri dalla casa sul porto canale, reliquiario di una vita catafratta nel riserbo assoluto, dove si sarebbe spento quattro anni dopo. Il convegno non solo e non tanto rammentava l’autore delle celeberrime Poesie scritte col lapis (1910), crestomazia del crepuscolarismo, e vagliava il firmatario di novelle e romanzi (fra cui, notevoli, I puri di cuore, ’23, L’Andreana, ’35, La vedova Fioravanti, ’40 – poi tradotto nel ’76 in uno sceneggiato tv, regia di Antonio Calenda, con una grande Lina Volonghi –, copiosa narrativa concernente la vita inespressa e intrisa di grigio della piccola borghesia di provincia), quanto specialmente si legava, quell’assise, a un ritorno di fiamma della poesia magicamente intatta e ascrivibile al vecchio che aveva dettato nell’ultimo decennio ben cinque raccolte, emerse dopo oltre cinquant’anni di silenzio all’improvviso ex imo corde, tra cui da ultimo il Diario senza le date (’74).

Cantilene e rime baciate
Si può dire che per l’occasione (gli Atti del Convegno di studio Cesenatico 1975. Marino Moretti, a cura di Giorgio Calisesi, uscirono dal Saggiatore già nel ’77) vennero cancellati almeno due stereotipi che avevano distorto la ricezione della sua poesia: il primo appunto relativo al crepuscolarismo (perché sul serio Moretti appariva troppo vistosamente crepuscolare per esserlo fino in fondo o per non sospettare una qualche sua eresia o una ufficiosa liaison con l’amico della vita, Palazzeschi), il secondo invece relativo a una chiarezza senza apparenti segreti, a una cantabilità o insomma a una automatica facilità, nel profluvio di cantilene e rime baciate, che rendevano ideale per i sussidiari delle scuole elementari Marino, il piccolo Marino, va da sé, delle parodie di Luciano Folgore e dei versi ventriloqui di Paolo Vita-Finzi nella Antologia apocrifa (’27). Fatto sta, al convegno tra i relatori spiccavano alcuni studiosi relativamente più giovani e interessati in particolare alla produzione poetica come Franco Contorbia che discorreva del rapporto con Gozzano, Anna Folli e Giuseppe Nava sul corposo retroterra pascoliano, Vittorio Coletti sui versi d’esordio, Fausto Curi sui rapporti con l’avanguardia e finalmente Fernando Bandini, un intenditore di metrica e stilistica che era stato maestro elementare, appena reduce a sua volta dalla raccolta poetica Memoria del futuro (’69) che lo aveva segnalato in via definitiva. Bandini parlava di un trobar leu, di contro al trobar clus del maggioritario secolare, cioè di un tratto difficile in realtà da valutare perché esito «di un lucido volontarismo, non soltanto episodio di nativa felicità»: ne concludeva che si era in presenza della classica astuzia della colomba e che il candido canto di Marino era appena l’altra faccia di un sottaciuto e non meno perplesso cinismo, quasi che il crepuscolare portasse necessariamente in sé un incognito poeta parnassiano.
Diversi decenni e una pletora oramai di studi specialistici (spesso e volentieri propiziati da Casa Moretti di Cesenatico, archivio d’autore e polo filologico cui sovrintende Manuela Ricci) hanno ben circostanziato l’intuizione di Bandini come adesso testimoniano le Poesie 1905-1914 (La nave di Teseo «i Delfini», pp. 285, € 25,00) nella esatta curatela di Renzo Cremante. Si tratta dell’auto-antologia con cui Marino Moretti nel primo dopoguerra (il libro esce da Treves nel ’19) riassetta e mette in liquidazione una intera vicenda poetica che al momento presagisce unica e irripetibile. Quattro ne sono gli affluenti, La serenata delle zanzare (1908), ovviamente Poesie scritte col lapis, Poesie di tutti i giorni (’11) e Il giardino dei frutti (’16), in tutto sessantotto testi, circa un terzo dei complessivi. Minuzioso è il lavoro di revisione, molto complesso il sistema delle varianti secondo un esercizio correttivo, scrive Cremante, che eccelle «nell’uso della forbice (e della colla), nell’arte di levare». Evidente da parte del poeta è la predilezione del tono prosastico e del passo narrativo dentro microstorie che procedono più spesso per quartine di ottonari o endecasillabi a rime incrociate mentre esse recepiscono, lo fa ancora notare Cremante, ciò che poi sarà affidato alla prosa solo in apparenza atona delle novelle e dei romanzi. Il criterio selettivo d’autore appare dunque nettamente anti-avanguardistico ma del resto Moretti (teste Curi) è stato sempre un avanguardista molto temperato, un dissacratore silenzioso o piuttosto in falsetto, percependosi ancora una volta come il fratello opposto e complementare di Palazzeschi ovvero come un Pascoli totalmente estroverso, talora spensierato e appagato, comunque sgravato dalle grevi ipoteche dell’inconscio. È come se, allestendo l’auto-antologia che avverte terminale, egli mirasse a smarcarsi dall’etichetta che lo aveva bollato, il crepuscolarismo, e intanto trattasse la sua stessa poesia con il finto candore (la sostanziale freddezza) di un manierista.
Lo conferma la divisione in sezioni, cinque in tutte, che mantiene per la seconda e la terza i titoli originali (Poesie scritte col lapis, Poesie di tutti i giorni) ma per le altre sceglie contrassegni convenzionali e didascalici quali Elogi ed elegie, Poesie scolastiche fino all’opaco, ma forse cripto-pascoliano, Poemetti. Il lettore vi ritrova l’intero repertorio dei temi e delle forme più sue con lo squallore di interni piccoloborghesi, davanzali coi vasetti di vaniglia, tinelli che sanno di rinchiuso, immaginette con la Madonnina del Sassoferrato ed esterni non meno derelitti di piogge eternamente autunnali («Piove. È mercoledì. Sono a Cesena», suo verso eponimo, viene in effetti da Rodenbach), viali deserti, cani trafelati, organetti di Barberia che risuonano anche da un altrove non meno tetro e penitenziale, Bruges («Bruggia»), con i suoi misteriosi beghinaggi.

Rosa della grammatica latina
Nemmeno è un caso sia centrale nella selezione l’universo scolastico, con le aule in penombra come nelle tele di un Angelo Morbelli, banchi di legno corroso, nomi di compagni che rispondono all’appello per smarrirsi nel tempo, abbecedari sgualciti, il Piccolo Melzi e la grammatica latina del Gandino da cui, per esempio, procede Elogio di una rosa insieme con l’emblema della poesia medesima: «Rosa della grammatica latina / che forse odori ancor nel mio pensiero, / tu sei come l’imagine del vero / alterata dal vetro che s’incrina! // Fosti la prima tu che al mio furtivo / tempo insegnasti la tua lingua morta, / e mi fioristi gracile e contorta / per un dativo od un accusativo. // (…) Anche un fior falso odora, anche il bel fiore / di seta o cera o di carta velina, / rosa della grammatica latina: / odora d’ombra, di fede, d’amore».
In quell’aria da rosa rosae c’è tutto il poeta che molti di noi hanno incontrato nella scuola elementare di una volta tra le rime di Renzo Pezzani, di Ada Negri e Zietta Liù. Non potevamo certo sospettare che l’avremmo ritrovato immutabile a tanta distanza di spazio e di tempo. Ma d’altronde quel 3 ottobre del ’75, aprendo il convegno di Cesenatico, Contini aveva a tutti ricordato che Marino Moretti, lì davanti a lui, era certo un individuo esile, fragile, e però «di una fragilità d’acciaio».