Non è stato un remake della presa degli ostaggi nell’ambasciata statunitense a Teheran il 4 novembre 1979, ma c’è mancato poco. Martedì migliaia di iracheni sono entrati nella Zona Verde di Baghdad, di solito blindata: a farli passare sono stati i militari di guardia, loro concittadini, in segno di solidarietà e di protesta per i raid statunitensi di domenica contro le milizie sciite.

Nel compound dove ha sede l’ambasciata di Washington, i dimostranti sono riusciti a sfondare un cancello e sarebbero entrati a frotte nella sede diplomatica se non fossero stati fermati. Una cinquantina di iracheni sono finiti all’ospedale per aver inalato i gas lacrimogeni lanciati dai marines, ma di certo non sono stati i gas a fermare migliaia di dimostranti: è assai probabile che a ordinare la ritirata sia stato il Grande Ayatollah Ali al-Sistani dalla città santa di Najaf, ben consapevole dei rischi di una crisi diplomatica con Washington.

Novant’anni compiuti lo scorso agosto, al-Sistani è il religioso di più alto rango del mondo musulmano sciita e il leader più influente in Iraq dalla caduta di Saddam Hussein nel 2003. È un fautore della democrazia e un difensore della Costituzione: se l’altro ieri i dimostranti si sono ritirati dal compound statunitense dov’erano ormai riusciti a penetrare, è verosimile che l’ordine sia arrivato da al-Sistani, memore dell’isolamento internazionale in cui era stato confinato l’Iran pochi mesi dopo la Rivoluzione del 1979, quando l’Ayatollah Ruhollah Khomeini aveva avallato la presa dell’ambasciata americana da parte degli studenti del gruppo Khat-e Imam, la linea dell’Imam.

La crisi degli ostaggi era durata 444 giorni, aveva isolato l’Iran e distrutto irrimediabilmente i rapporti con gli Stati uniti e tutto l’Occidente, che non mosse un dito quando nel settembre 1980 il dittatore iracheno Saddam Hussein invase l’Iran scatenando una guerra durata fino al 1988.

Oggi, i rapporti tra Baghdad e Washington sono più tesi che mai. Occhio per occhio, dente per dente: è la legge del taglione, e non il diritto internazionale, ad avere la meglio. Lo dimostrano gli eventi degli ultimi giorni. Domenica scorsa l’aviazione militare statunitense aveva bombardato il nord dell’Iraq, facendo 25 morti tra i combattenti di Kataib Hezbollah.

Considerata da Washington organizzazione terroristica, questa milizia sciita filo-iraniana è stata ritenuta responsabile di un attacco con i missili che ha ucciso un contractor americano, accusa che gli Hezbollah iracheni rispediscono al mittente.

In risposta ai raid statunitensi, martedì migliaia di iracheni hanno preso d’assalto la sede diplomatica americana a Baghdad e, urlando lo slogan «Morte all’America», hanno bruciato bandiere a stelle e strisce e dato fuoco a una delle torrette di guardia del complesso che ospita la sede diplomatica. In risposta, il presidente statunitense Donald Trump minaccia rappresaglie contro Teheran e il Pentagono invierà ulteriori 750 soldati nella regione.

Gli americani violano la sovranità di Baghdad ed è l’arcaica legge del taglione a imporsi in un Medio Oriente mandato in frantumi dall’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003. Di questi tempi, la volontà dei falchi di Washington è far esplodere in mille schegge anche l’Iran, da sempre mosaico di popoli in grado di convivere pur appartenendo a etnie diverse, che parlano lingue differenti e professano l’Islam sciita e sunnita, il cristianesimo, lo zoroastrismo, l’ebraismo.

Per distruggere la Repubblica islamica, gli Stati uniti hanno mandato a monte l’accordo nucleare del 2015 e scatenato una guerra economica. Di fronte alla resilienza del popolo iraniano, il conflitto si è aperto alla sfera militare con l’invenzione del sedicente Stato islamico, combattuto sul campo dalle Guardie rivoluzionarie iraniane che ne hanno limitato l’espansione in Siria e in Iraq.

Paradossalmente, i continui attacchi statunitensi nei confronti dell’Iran hanno permesso ad ayatollah e pasdaran di consolidare alleanze preziose nella regione e la formazione di milizie sciite nel vicino Iraq con il consenso del Grande Ayatollah Ali al-Sistani che nel 2014 aveva emesso una fatwa (decreto religioso) autorizzando la jihad (guerra santa) difensiva contro l’Isis, una fatwa da cui trae legittimità il Fronte di Mobilitazione popolare, in prima linea nelle dimostrazioni di ieri e martedì nella Zona Verde di Baghdad.

A novant’anni, al-Sistani è un leader religioso aperto e tollerante, rispettato dagli iracheni (pur essendo cittadino iraniano) e consultato regolarmente dalle Nazioni unite. La sua successione sarà particolarmente difficile perché nessun altro ayatollah ha lo stesso livello di pietà e superiorità di conoscenza in giurisprudenza. Tanto meno la gerarchia della Repubblica islamica, che in questi anni si è dedicata più alla politica che agli studi religiosi.