Il documentario di OfficinaMultimediale This arm / Disarm. Le macchine armate di Paolo Gallerani, dedicato alle opere dell’artista (proiezione oggi, alle 18, presso la Casa della Cultura di Milano) ha il pregio di ricostruire il percorso attraverso il quale la creazione artistica viene afferrata dal piano umbratile in cui era stata concepita.
La narrazione, che Maurizio Gibertini sviluppa attraverso la telecamera, individua dei focus in cui alla voce, all’immagine di Gallerani e degli altri si alternano le diverse fasi della produzione o dell’allestimento dei lavori. Il rigore delle riprese permette alle immagini di trasformarsi in un vero e proprio archivio.

DOCUMENTARE, archiviare; il modo in cui Gibertini compie questo lavoro si incontra in modo specifico con la processualità attraverso la quale Gallerani concepisce la realizzazione delle sue opere. Entrambi lasciano parlare, esprimersi le loro creazioni senza privilegiare l’interpretazione autoriale. Il risultato è una realizzazione critica dell’agire creativo, una produzione di senso che non gerarchizza, piuttosto documenta, s’impegna quindi in modo attivo distanziandosi da ogni codice prescrittivo.
Nelle opere di Paolo Gallerani le macchine sono dispositivi dominanti poiché macchine da guerra. Sono al contempo corpi tecnicamente adeguati per la guerra, quella contro i corpi fragili del vivente. L’uomo e la macchina non sono in un rapporto duale o antinomico, si tratta piuttosto di un rapporto ibrido in cui la fantasia delira e delira come avrebbero detto Deleuze e Guattari, sul sociale.
Le macchine del desiderio sono possibilità di potenza felice, ma anche distruttiva: «Il delirio ha come due poli, razzista e razziale, paranoico-segregativo e schizo-nomadico. E tra i due, tanti scivolamenti sottili, incerti, ove l’inconscio stesso oscilla tra le sue cariche reazionarie e le sue potenzialità rivoluzionarie» (L’Anti-Edipo).

SE NON COGLIESSIMO quest’articolazione, non potremmo comprendere come le sculture, ma anche gli appunti, le foto, le ricerche di Gallerani ricostruiscano i percorsi di guerra e terrore che il «male banale» traduce in offesa, un’offesa quotidiana, neutralizzata dalla distanza tra il gesto e l’effetto che l’innovazione tecnica rende sempre più grande. Resta la potenza dell’immaginazione che è anzi restituita in modo più ampio, diffuso.
In Virilio questo gesto distante e acefalo indica il moltiplicarsi delle catastrofi in un’accelerazione diretta verso la catastrofe finale. Gallerani lavora il legno, recupera relitti, incide segni, annota, scrive l’umano, s’ingegna intorno alla macchina: è questo un modo di procedere creativo che non vuole descrivere, ma che evoca, chiama in causa, testimonia e utilizza altrimenti.
Nike, un missile si biforca, è segnato, cartografato da buchi, luoghi del collasso, il corpo caldo disegna sul corpo freddo della macchina da guerra l’effetto, fa cortocircuitare il senso, il corpo martoriato è l’arma che duplica il vivente annientato.
E se creare significa evocare «il popolo che manca, la razza minore e bastarda» che Deleuze richiamava citando Paul Klee ebbene qui la «razza minore» trova posto, in una costellazione di senza nome sradicati, privati di terra, privati di vita. L’arte gioca in tal modo un ruolo attivo, politico, non sottomesso, gioca il gioco ribelle che non è denuncia ma realizzazione di carte e scritture che sono voci e sono affetti.
Le macchine della guerra sono la proiezione fantastica del dominio dell’umano che ancora si vuole centrale e non co-poietico, non co-creativo, ma la specie umana così singolare, si modifica ed è modificata solo in relazione alle trasformazioni ambientali che produce.

In tal senso, il documentario realizzato da Officine Multimediali, a firma di Maurizio Gibertini, restituisce contesto, materiali, percorsi di creazione. Dunque un’altra macchina è sopraggiunta, «la macchina che vede» per richiamare una felice espressione di Virilio, infatti questa macchina raddoppia la visione, le offre una nuova angolatura che è soprattutto percettiva.

SECONDO MERLEAU-PONTY, «se si vogliono delle metafore, sarebbe meglio dire che il corpo sentito e il corpo senziente sono come il diritto e il rovescio o, anche, come due segmenti di un unico percorso circolare che, in alto, va da sinistra a destra e, in basso, da destra a sinistra, ma che è un unico movimento nelle sue due fasi». È una discesa agli Inferi, dunque una morte e una rinascita. Gli utensili sono i tracciati di questo percorso. Sono luoghi, geografie del movimento che l’uomo compie sull’uomo.
Beslan, la Quercia di Beslan ci parla di una catastrofe ovunque, descritta, parlata ma sostanzialmente prescritta nell’economia di uno spettacolo e di spettatori non più solo passivi, come ben aveva indicato Debord, ma complici per assuefazione e cinismo all’ordine della selezione e del dominio.
Le opere di Gallerani costituiscono per questo una possibilità di rottura nel circo decorativo di tante tendenze estetizzanti del contemporaneo.