Il governo della paura e del fanatismo: è quello che si è trovato davanti il giornalista tedesco Juergen Todenhoefer, primo reporter occidentale ad entrare nei territori occupati dall’Isis con l’accreditamento islamista e a tornare per raccontarlo. Da Raqqa, “capitale” del califfato, è arrivato a Mosul in Iraq, altra città simbolo dell’avanzata dello Stato Islamico.

Todenhoefer ha trascorso con i miliziani sei giorni, ha dormito e mangiato con loro, ha girato i quartieri di Mosul, ha visto come governano e reprimono. Ed è giunto ad una conclusione: non solo l’Isis è più violento di quanto si creda, ma è anche più forte.

Come spiegato in un articolo de il manifesto dello scorso 17 dicembre, Mosul sembra il cuore della repressione islamista: a differenza di Raqqa, dove per ottenere il consenso di una popolazione stremata dalla guerra civile e dall’assenza dello Stato siriano al-Baghdadi ha messo in piedi un sistema amministrativo articolato e apparentemente funzionante, Mosul è schiacciata dalla violenza. Le nuove leggi imposte ai civili e la mancanza di servizi hanno fatto sprofondare la seconda città irachena in una dura crisi economica.

Il giornalista tedesco si è trovato di fronte, racconta, una popolazione governata dalla paura: poster lungo le strade spiegano agli uomini come pregare e alle donne come coprirsi il corpo; le librerie vendono solo testi religiosi; i bambini imbracciano armi e il numero di stranieri arruolatisi nelle file dell’Isis è in crescita. Di cristiani e sciiti non c’è quasi più l’ombra, fuggiti a giugno quando Mosul cadde in poche ore in mano islamista; chi resta paga una tassa per non perdere la vita.

I governanti, i miliziani islamisti, al contrario vivono di «un entusiasmo mai visto in un contesto di guerra», guidati dalla fede cieca nel califfo, dalla forza della propaganda jihadista e dalla ricchezza economica del califfato. La presenza capillare sul territorio (Todenhoefer stima 5mila combattenti in città) li rende target meno facili per i raid della coalizione, elemento che ne rafforza lo spirito: «Sono sicuri di sé. All’inizio di quest’anno in pochi conoscevano l’Isis, ma ora hanno conquistato un’area grande come la Gran Bretagna. Nessuno ha davvero l’opportunità di fermarli, solo gli arabi possono».

Ma l’aiuto del mondo arabo è legato a doppio filo agli interessi di ogni regime: la Giordania ha fatto sapere che addestrerà l’esercito iracheno, l’Iran manda uomini e armi a Baghdad, l’Arabia Saudita dice di aver chiuso i rubinetti dei finanziamenti all’Isis. Ma dietro resta l’assenza di un’agenda politica comune che freni lo Stato Islamico, il cui controllo del territorio è totalizzante.

Investe anche gli stessi miliziani: 45 membri dell’Isis sono stati giustiziati dopo aver tentato di fuggire dal campo di battaglia nella provincia irachena di Anbar, teatro da mesi di scontri con esercito iracheno e tribù sunnite. Dopo aver subito la controffensiva delle truppe di Baghdad a Heet e l’avanzata dei kurdi a Sinjar, i 45 hanno “disertato” ma sono stati catturati e giustiziati per tradimento.

E mentre uscivano le prime dichiarazioni del reporter tedesco, un rapporto di Amnesty International riportava le terribili testimonianze delle donne yazidi ostaggio dello Stato Islamico. Stuprate, schiavizzate e vendute nei mercati: questo il destino di migliaia di donne catturate nelle aree yazidi intorno Sinjar. Una violenza tale che molte di loro hanno preferito il suicidio.

Ai rifugiati iracheni e siriani è andato anche il pensiero di papa Francesco: ieri in una lettera indirizzata alle minoranze religiose in Medio Oriente ha scritto di voler andare a Irbil (Kurdistan iracheno) per consolare i profughi. Proprio ieri in Iraq si trovavano il ministro degli Esteri Gentiloni e la Mogherini, rappresentante Ue per gli affari esteri, che hanno promesso maggiore sostegno: Roma invierà a Baghdad 280 addestratori militari.