L’anno prossimo in primavera, secondo il «cronoprogramma» che il governo sta cercando di imporre al parlamento, la riforma o le riforme costituzionali dovrebbero essere a un passo dall’approvazione. Oppure potrebbero essere ancora in alto mare, appese al referendum confermativo della legge che modifica le procedure dell’articolo 138. Si tratta del disegno di legge costituzionale presentato dal governo che dalla prossima settimana sarà discusso in senato. Nei piani del ministro Quagliariello dovrebbe andare in porto in prima lettura entro fine luglio e definitivamente a ottobre. Ma se dovesse essere approvato da meno dei due terzi dei senatori o dei deputati in seconda lettura, potrebbe essere sottoposto a referendum. La corsa dell’esecutivo finirebbe fuori strada e tutto il progetto di riforma costituzionale andrebbe a farsi benedire. Il ministro lo ha ammesso ieri: «Se non si raggiungerà il quorum dei due terzi sul ddl del governo vorrà dire che l’accordo politico è venuto meno». E senza accordo sulle riforme – il governo lo ha minacciato a più riprese, vincendo così le perplessità della maggioranza sulla procedura d’urgenza – anche l’esecutivo «ne trarrebbe le conseguenze».

Il senso logico di questi avvertimenti dovrebbe essere, allora, che il destino del governo Letta è legato a una quarantina di senatori o a una sessantina di deputati. Tanti ne servirebbero per fermare il consenso sul primo disegno di legge costituzionale al di sotto della soglia che lo blinda dal referendum. Certo, un referendum su una legge di procedura risulterebbe un po’ ostico, ma i referendum confermativi come si sa non necessitano di quorum. E soprattutto possono essere tenuti anche negli anni elettorali, com’è il 2014 che ha in calendario le elezioni europee. In ogni caso basterebbe la semplice richiesta della consultazione – servono 500mila firme, ma sono sufficienti anche i parlamentari dei gruppi dichiaratamente ostili, Sel e 5 Stelle – per fermare a ottobre la corsa delle riforme: addio comitato dei 40 e tutte le altre deroghe al 138 previste dal ddl governativo.

È questo il punto debole della complicata architettura escogitata da Letta, Franceschini e Quagliariello con l’unico scopo di aspettare che la maggioranza delle larghe intese maturi il suo accordo politico. Ovvero che il Pd si convinca tutto al presidenzialismo. Il paradosso è che proprio il governo che si sta facendo vanto di aver previsto nel suo schema il ricorso libero alla consultazione popolare, adesso è costretto a minacciare sfaceli in caso di referendum. Al contrario, per coerenza dovrebbe essere proprio Quagliariello a chiedere alla maggioranza di fermarsi sotto la soglia dei due terzi per ascoltare l’opinione dei cittadini.
Non lo farà, ma è possibile che un po’ di senatori o deputati decideranno di differenziarsi ugualmente. Gli occhi sono puntati sul Pd, ma negli ultimi giorni è dal Pdl che arrivano le critiche più pesanti. L’insistenza di Quagliariello sui «tempi certi» irrita i suoi avversari interni al Pdl, che non sono pochi. «In questo modo finirà con l’irritare tutti», dice Sandro Bondi. Certo, ci sono anche gli entusiasti. Come l’ex ministro Maurizio Sacconi, biografia socialista, che nelle mosse di Quagliariello vede la realizzazione «di quella che Craxi chiamava la grande riforma».

Nel Pd il gruppo dei frenatori è più strutturato, e comprende i parlamentari vicini a Rosy Bindi, qualche prodiano, Pippo Civati. Se poi il discorso piegasse verso il semipresidenzialismo i contrari crescerebbero immediatamente, specie nella sinistra. Bindi e Civati il 2 giugno scorso erano a Bologna con Libertà e giustizia. L’associazione sta organizzando un altro appuntamento nazionale assieme ai Comitati Dossetti, e già si attrezza a confluire nel comitato per il No ai referendum finali sul merito delle riforme. Ammesso che di referendum non si possa parlare già prima, tra pochi mesi se, come dice Quagliariello, «verrà meno l’accordo politico».