Altre cento, mister Federer, altre cento. A Wimbledon si celebra senza rischi di annoiarsi la grandezza di questo quasi 36enne che oggi contro il canadese Raonic gioca la sua centesima partita sull’erba londinese. Re Roger, che vince, incanta, mentre la maggior parte dei fenomeni del passato a questa età si erano già dati al golf, agli affari, ai commenti in tv, insomma salutando la racchetta. Invece il Divino scrive un altro primato (condiviso con Venus Williams, ma era arrivato a cento partite giocate anche all’Australian Open) sul Centrale dell’All England Club, davanti a Kate Middleton accampata nel Royal Box. Raonic è un pericolo reale, un tipo da servizio e dritto, uno – due che porta sempre dividendi sull’erba, come sul cemento. In ballo c’è la semifinale, probabilmente contro Novak Djokovic, l’ex numero uno al mondo che prova a risalire dopo una lunga crisi di fame da tennis e risultati.

Se Roger battesse anche il serbo, potrebbe trovare in finale Andy Murray, il campione di Sua Maestà (anche se scozzese), sulla strada dell’ottavo successo a Wimbledon. È considerato il favorito del torneo, forse lo è, senza tralasciare Djokovic e Murray. Per ora c’è Raonic, che l’ha battuto lo scorso anno in semifinale. E anche al canadese si deve l’ultimo fantastico della carriera di Federer, che dopo la sconfitta annunciava la fine del 2016 sui campi. C’era il menisco di un ginocchio da ripulire e suturare, ma forse ancor di più un finale di carriera che andava meditato, riprogrammato. Quindi, mesi ai box, l’assenza alle Olimpiadi di Rio de Janeiro e allo Us Open. E dopo i legittimi dubbi sul suo ritorno, ecco la rinascita, con la finale vinta agli Australian Open su Rafa Nadal, l’uno-due Indian Wells-Miami, sino al successo nel consueto torneo pre Wimbledon su erba, a Halle, in Germania. E tra gli Stati uniti e la Germania, dieci settimane di riposo, vacanze con i figli al mare. È la tabella Federer per ritardare il ritiro dalle scene. Allenamenti mirati e neppure troppo lunghi, al resto ci pensa la classe. Se ne è accorto due giorni fa Dimitrov, respinto dall’elvetico agli ottavi di finale, annientato negli anni passati dal soprannome «Baby Federer», la stessa sorte capitata a una decina di malcapitati talenti argentini accreditati da stampa e tifosi come eredi di Diego Armando Maradona. E finiti regolarmente nella polvere nel continuo e improprio parallelo con El Diez.

L’unico che ha resistito, seppur a stento, alla pressione mediatica è Leo Messi, il primo calciatore al mondo. E invece nel tennis l’erede di Federer proprio non c’è. Non si vede chi possa ricordarlo per tocco di palla, capacità di giocare di mezzo volo, sintesi perfetta di eleganza ed efficacia. Certo, tra i millennials c’è talento, come il tedesco Zverev, 21 anni, quasi due metri, personalità e potenza. Un predestinato, uno che vincerà tornei del Grand Slam, che forse segnerà un’era, la sua era. Ma Roger è altra cosa, è come Alì, come Maradona, come Senna. Anche se non vincesse l’ottavo Wimbledon.