La morte di Leonardo del Vecchio è accompagnata dalla definizione dell’industriale-finanziere come di un «self made man di stampo anglosassone». Una definizione di chi forse non ha letto La situazione della classe operaia in Inghilterra di Friedrich Engels.

Una definizione che rinvia all’immagine degli intraprendenti mercanti inglesi degli albori della rivoluzione industriale, che, nella nuova veste di capitalisti, riuscirono ad imporsi come nuova classe dominante. D’altro canto, gli ingredienti per una tale narrazione, nel caso di Del Vecchio, ci sono tutti: il figlio di un commerciante di frutta che da garzone di bottega diventa egli stesso bottegaio e poi imprenditore leader nel settore dell’ottica.

È la storia di Luxottica (dal 2018 EssilorLuxottica, dopo la fusione con la francese Essilor), la più grande holding di produzione e vendita di occhiali e lenti a livello mondiale, con circa 80mila dipendenti (si è arrivati fino a 140mila) e oltre novemila punti vendita sparsi per il pianeta. Non per niente la rivista Forbes ha stimato in circa 27,3 miliardi di dollari la sua ricchezza personale, collocandolo al secondo posto tra gli uomini più ricchi d’Italia (62° nella classifica mondiale).

La sua storia imprenditoriale è comunque sovrapponibile alla storia di quello che per convenzione chiamiamo «neocapitalismo». Quel sistema di porte girevoli tra economia produttiva e finanza che ha radicalmente trasformato le relazioni tra produzione e bisogni, ma anche quelle tra capitale e lavoro. Come altri grandi gruppi italiani, anche quello di Del Vecchio ad un certo punto incomincia ad accarezzare la «vertigine» della finanza speculativa. I tempi sono questi. Non è solo una questione di commistione tra industria e finanza (e di conflitti d’interesse), come nel capitalismo d’inizio Novecento che naufragò nella crisi del ‘29, ma di un sistema nel quale sono i listini di borsa e la speculazione a regolare le decisioni del management industriale. «La finanziarizzazione è un progetto per fare denaro col denaro, riducendo al minimo la fase intermedia della produzione di merce», avrebbe chiosato Luciano Gallino. Luxottica non è stata immune da questa deriva. E Leonardo Del Vecchio ne è stato, a suo modo, un eccellente interprete.

Ne è prova il fatto che in queste ore l’argomento principe riferito alla sua dipartita non è tanto il futuro della produzione di occhiali, bensì il «cosa potrà accadere» nel cuore del mondo finanziario italiano. Si sottolinea, infatti, che il patron di EssilorLuxottica è un azionista di peso sia in Mediobanca che in Generali Assicurazioni. 20% del capitale della prima, più del 9% di quello delle seconde, detenuti per il tramite della holding di famiglia Delfin. E che da un po’ di tempo aveva ingaggiato una battaglia contro l’attuale management dell’istituto di credito fondato da Raffaele Mattioli ed Enrico Cuccia.

Con quale obiettivo? La risposta, secondo alcuni osservatori, si troverebbe nella storia del suo successo come imprenditore degli occhiali. Una storia fatta di acquisizioni (Ray-Ban, ad esempio) e fusioni (con Essilor, come si è visto), fino alla costruzione di un gigante monopolista del settore. Un’idea di gigantismo industriale, insomma, che Del Vecchio vuole portare dentro la cittadella della finanza italiana. Scalare Mediobanca e Generali per un’operazione «storica»: la creazione di un gigante finanziario dalla fusione di Mediobanca, Generali e Unicredit.

L’hanno definito il «sogno» dell’ex ragazzo del Martinitt (l’istituto milanese per orfani e bambini abbandonati). Forse è vero che al culmine della sua carriera imprenditoriale volesse legare il suo nome ad una operazione di portata storica, come tanti uomini di stato e dittatori del passato hanno voluto legare il proprio nome a stupefacenti opere di architettura ovvero a monumenti faraonici autocelebrativi. Ma non basta. Il gigantismo bancario risponde a quella che potremmo definire una logica di economia di scala della finanza. «Grande» significa meno rapporti con i territori e le esigenze dell’economia reale, ma anche maggiore sicurezza nella navigazione dei mercati finanziari globali. Una concentrazione straordinaria di risorse finanziarie capace di competere con gli altri colossi della finanza globale.

E poi, non dimentichiamo mai un’espressione con cui abbiamo familiarizzato una decina di anni fa, dopo la bolla dei subprime americani: Too big to fail. Banche troppo grandi per fallire. «Grande» non soltanto come garanzia di grandi affari, ma anche come certezza che dei propri fallimenti, in ogni caso, se ne farebbe carico tutta la società. Do you remember il crack finanziario globale che in Europa si tramutò d’incanto nella «crisi dei debiti sovrani»? Beh, forse Del Vecchio pensava rassicurato anche a questo, mentre accarezzava il suo sogno del grande polo finanziario nazionale.