Se c’è un poeta intensamente amato, tradotto, imitato – almeno da chi è ‘nato platonico’ – questo è Keats. Poeta romantico per eccellenza, annunciato da Novalis appena dopo la nascita nel 1795: «Il carattere più completo, quello trasparente, spontaneamente comprensibile – quello leggero e splendente per natura ed elastico» (Polline, 1798), che ispira a Pater l’ideale classico di bellezza: «Più volte il mondo è stato sorpreso dall’eroismo, dalla saggezza, dalla passione di questa limpida natura di cristallo» ( Diaphaneité, 1864). Non manca Yeats che lo immagina bambino: «La sua arte è felice; ma chi conosce la sua mente? / Se penso a lui, vedo uno scolaretto / col viso e il naso su una vetrina di dolci» (Ego Dominus Tuus, 1915). «Keats è giovanissimo, il più giovane dei poeti – una sorta di verginità liturgica fa sacre quelle sue mani. Anche il dubbio è in lui una sorta di fede» (Manganelli, Appunti critici, maggio-giugno ’48, autografo, 2010). «Il poeta camaleonte accetta di restare sospeso a un io linguistico, cui non corrisponde un sé. E scopre la poesia come il regno di un self espropriato» (Fusini, Mondadori, 2019).
A duecento anni dalla morte una nuova traduzione dell’opera poetica si aggiunge a quelle più note – Mario Roffi (Einaudi 1983), Silvano Sabbadini (Mondadori 1996), il «Meridiano» che contiene anche testi prima mai resi in italiano, a cura di Nadia Fusini, traduttori Roberto Deideir, Nadia Fusini, Viola Papetti (Mondadori 2019). Fammi lezione, Musa è l’ invocazione da poeta che Francesco Dalessandro ha voluto come titolo alla sua opera di traduttore: I sonetti, La Belle Dame sans Merci e altre poesie per Fanny (premessa di Francesco Rognoni, Associazione Culturale Contatti, pp. 182). Rognoni che conosce bene sia Keats che Dalessandro ci assicura: Keats amava le traduzioni e ne è prova che si godeva Omero nella versione secentesca di Chapman, e il Dante del Cary come una prima dislocazione del testo, via dalla severa scenografia classica nei reami dorati dell’immaginario romantico. Ma avverte: «Dei grandi romantici inglesi, Keats è senza dubbio quello peggio servito nella nostra lingua. Non solo per sprovvedutezza o sicumera dei traduttori, poeti o professori che siano. La sua stessa poesia non aiuta. Basta un niente e precipita nel cattivo gusto».
A volte un nubifragio neoilluminista occulta quella regione originaria che fu il Romanticismo, a cui il giovanissimo Keats arrivò di un balzo. Niente scuole privilegiate, niente Oxford o Heidelberg dove batteva il cuore (e la mente) del Romanticismo tedesco; dove presto si recarono in pellegrinaggio gli intellettuali futuri poeti: Wordsworth, Coleridge, Shelley. Keats perdeva tempo. Leggeva tra le fratture di una traduzione, tra equivoci, e omissioni; meglio ancora attraverso un’imitazione, o in un cattivo sonetto neoclassico. Più sensualmente, dagli Elgin Marbles e dall’urna greca, ospitati nel British Museum, percepiva la Grecia: il bagliore del sole, l’ azzurro marino del cielo, il calore bianco delle pietre, il suono verde delle acque. La scena silvestre o fluviale si componeva armoniosamente nell’immaginazione nel giovane studente di medicina.
Nel nuovo secolo, il suo Ottocento, la riscoperta del mito permetteva di superare «una ragione solo ragionante», secondo l’espressione di Schlegel. Non è in imbarazzo lui che audacemente si è messo in cammino per incontrare gli antichi dèi nella sua Grecia. Qui Endimione si invola con Cinzia, qui coglie la felicità di una comunione per sempre. «Né queste essenze sentiamo solo / per brev’ora; no, come anche gli alberi / che sussurrano attorno al tempio stesso, così fa la luna, / la poesia passione, le gioie immense, / ossessioni per noi finché non siano beatificante luce / all’anima nostra, e a noi si legano sì forte, / che, sia splendore, o tenebra tetra, /sempre con noi dimorino, o moriamo» (Endimione, I, vv. 25-33 trad. Papetti).
Ci sarà un devoto che in una lingua esotica leggerà presso la sua tomba La Belle Dame Sans Merci il prossimo 23 febbraio? «Ora ti dirò una cosa: Shakespeare è nato il 23, se quel giorno ricevessi una Lettera da te o dai miei Fratelli sarebbe una cosa proprio carina. Quando mi scrivi dimmi una parola o due su qualche passo di Shakespeare che ti ha colpito ancora di recente – cosa che accade sempre, anche se uno legge quaranta volte lo stesso Dramma … E come non ricordarti questo Verso: Nell’ oscuro passato e abisso del tempo. Ho scoperto che non riesco a vivere senza la Poesia, senza la poesia eterna; non basta la metà della giornata, ci vuole tutta. Ho cominciato a tremare perché non avevo scritto niente ultimamente. Il Sonetto che ti mando mi ha fatto bene. Ho dormito meglio la notte scorsa» (8 ottobre 1817, Lettere sulla Poesia, trad. Fusini). Difficile, anzi impossibile, staccare il Ragazzo dal Poeta – un biografo serio non lo farebbe mai. Ma nelle rare volte in cui il Ragazzo riesce ad affacciarsi in una lettera, scansando improvvise dichiarazioni di poetica, i suoi superbi emblemi, vale la pena ascoltarlo.
Per scusarsi presso la gentile signora Dilke, elenca gli ipotetici misfatti che avrebbe potuto compiere se fosse rimasto più a lungo: «Avrei tirato un solco proprio in mezzo al giardino, avvelenato il Cane, mangiato le Mollette, fritto i Cavoli, cucinato in fricassea (si scrive così?) i ravanelli, in Ragù le Cipolle, fatto un battuto di radici rosse, sgusciato i Fagioli, e fissato un parlezvous coi Fagiolini. Avrei messo il povero Philips sotto sale, scordato il piano, messo in disordine i Candelieri, svuotato il ripostiglio del Vino in un attacco di disperazione…» (14 settembre 1817). E ancora non sarebbe finita. «Odio la poesia che ha un disegno palpabile – e se uno non è d’accordo, sembra che si metta le mani in tasca con indifferenza» (lett. 3 febbraio1818).
Il Ragazzo ha suggerito di scrivere The Cap and Bells: or, The Jealousies, «un racconto di fate, non finito», e quadretti gotici, ballate esotiche, sonetti ad amici e fratelli o su poeti morti Burns, Chapman, Chatterton, Omero … Ingenuo, cortese, di grazia adolescenziale, forte di un pudore morale tutto suo – ma non pudibondo, anzi entusiasta, ardito, sensuale. «Keats non visse tanto da ‘crescere’: tuttavia qua e là rischia – la sua voce è venata di scuro – si veda The day is gone e To Ailsa Rock – Keats morrà giovane – ma la sua verginità è un incubo – è arrivata fino a noi – e s’è macchiata due volte nel maligno – in Poe e Baudelaire che vengono diretti dal ceppo keatsiano» ( Manganelli, Appunti critici, 48-49).
Anche nella ballata della Belle Dame sans Merci c’è del maligno. Dalessandro, con sensibilità di poeta, l’ha posta alla fine della stagione matura, forse con il dubbio che non sia la conclusione quanto l’inizio di una nuova postura poetica. La Belle Dame ha scavato un percorso proprio nella sensibilità dei futuri lettori, archetipo di una proliferazione di femmes fatales novecentesche inglesi, francesi, italiane, spagnole … Un fosco gioiello liberty, un allarmante caveat nella show room del Novecento. L’amore, l’arte, il nulla sono i nostri sicari, e presto ci finiranno. Sulla cinerea collina, il cavaliere morente ascolta il sibilo dei morti che a nulla serve. Gethsemane, una ballata che Kipling scrisse dopo la morte del figlio nel primo giorno della prima guerra mondiale, ha una intima drammatica consonanza con La Belle Dame. In un giardino chiamato Getsemani, in Picardia, una bella ragazza offriva da bere ai soldati inglesi – uno di loro rammenta. «The officer sat on the chair / The men lay on the grass, and all the time we halted there / I prayed my cup might pass / It didn’t pass – / It didn’t pass from me, / I drank it when we met the gas/ Beyond Gethsemane». (L’ufficiale sedeva in poltrona, i soldati sdraiati sul prato, ogni volta che ci fermavamo, pregavo che non mi toccasse la coppa, – mi toccò, toccò anche a me, la bevvi quando incontrammo il gas dopo Getsemani).