Cultura

Il ragazzo che non doveva morire

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Scaffale Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, scrive «Una sola stella nel firmamento», un libro per raccontare il suo dolore e la storia di suo figlio, ucciso dalla polizia

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 12 aprile 2014

Sopravvivere al proprio figlio è un dolore indicibile, sopravvivere al proprio figlio ammazzato toglie il fiato; sopravvivere al proprio figlio mentre il mondo costruisce un’immagine deformata di lui e fa il vuoto intorno a te è impresa impossibile. Ma accade. È successo a Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, che oggi lo racconta in uno struggente libro, scritto con Francesca Avon : Una sola stella nel firmamento. Io e mio figlio Federico Aldrovandi (Il saggiatore, pp. 184, euro 14,50). «Io e mio figlio», perché questa è una pagina della storia italiana che narra di un paese dove capita di morire ammazzato da chi dovrebbe tutelarti e difenderti. Patrizia Moretti sente di dover riconsegnare a suo figlio la dignità di una memoria veritiera, perché anche di questo è fatta la giustizia. Sa di dover ricomporre l’immagine infangata del figlio, quella del balordo che se l’è cercata. Si sente come la mamma scoiattolo della favola, che uscita a cercare cibo al ritorno trova la casa distrutta dall’oceano e cerca disperatamente i suoi figli. Così anche lei lotta contro l’oceano infinito.

Tutto comincia la mattina del 25 settembre 2005 a Ferrara. Federico ha 18 anni, torna a casa da una serata con gli amici a Bologna, ha scelto di fare l’ultima parte di strada a piedi. Morirà in via Ippodromo. Il suo decesso viene constatato alle 6.16. Patrizia Moretti ci riconsegna i pezzi di un puzzle che faticosamente negli anni ha cominciato a comporsi, ma all’epoca lei dovette aspettare le 11 per apprendere che il figlio era morto. Eppure da tre ore lei e il marito stavano tempestando di telefonate Questura e ospedali per avere notizie del loro ragazzo. In quelle tre ore, il suo corpo era rimasto a terra in via Ippodromo. Per la polizia Federico è morto per overdose ma lo zio, infermiere all’obitorio, ha visto il corpo del nipote ricoperto di ferite e «tutto storto». Una famiglia sconvolta e stordita dal dolore si ritrova in quei giorni sola di fronte alle autorità di polizia e alla stampa locale che raccontano di Federico morto per un malore. Il questore convoca i genitori per spiegare che Federico è morto da solo e prova a scoraggiarli dal nominare un avvocato.

Soli, a parte qualche amico, mentre la città si convince della versione offerta dalla polizia, aspettano i risultati della perizia tossicologica. Ci metteranno tre mesi ad arrivare. Nel sangue troveranno quantità insignificanti di sostanze: nulla che possa avallare la versione di un ragazzo in preda a una crisi d’abuso. Forze di polizia e autorità inquirenti collaborano a costruire una narrazione che non le compromettano. Nessuna redazione locale in quei giorni pubblica la foto di Federico massacrato. Eccolo l’oceano da sfidare. Non è la forza della natura come nella favola del castoro ma la violenza e l’omertà degli uomini.

A Natale, il primo senza Federico, Patrizia decide di raccontare in rete chi era suo figlio. Il 2 gennaio 2006 nasce il blog dedicato a Federico Aldrovandi. Arrivano migliaia di commenti. Liberazione e il manifesto iniziano a parlarne. Poi Repubblica e il Corriere, e Chi l’ha visto. Titti De Simone, allora parlamentare di Rifondazione, interroga il ministro Giovanardi che ammette l’uso violento dei manganelli, rotti a furia di percuotere, ma parla, come continuerà a ripetere, di un ragazzo eroinomane.

Il libro ripercorre le tappe dell’impegno di Patrizia, del padre Lino, del fratello Stefano per avere giustizia e ristabilire la verità; i concerti organizzati con gli amici di Federico, le canzoni a lui dedicate. Gli alleati più vari, come i tifosi della Spal e poi altre tifoserie. Infine quattro agenti vengono iscritti nel registro degli indagati, il questore viene trasferito e una donna di origini camerunensi dice quello che aveva visto e sentito la mattina in cui Federico fu ucciso.

Arriva il processo e la sofferenza dei racconti. La sentenza. Colpevoli. «È giusto che ci sia una condanna non sono neppure riuscita a sentire di quanti anni ma non è così importante». Anche se un pezzo continua a mancare, quei tre quarti d’ora da quando Federico ha lasciato gli amici a quando Annamaria Tsagueu l’ha visto. E quei poliziotti sono ancora poliziotti, pur essendo colpevoli. E ci sono anche degli irriducibili, come i poliziotti del Coisp che hanno manifestato sotto le finestre del Comune di Ferrara, dove lavora Patrizia, o il senatore Giovanardi che ancora contesta che la macchia sotto la testa di Federico sia sangue.

Il libro è anche la storia di Patrizia, del suo dolore privato e della sua presa di parola pubblica. Per reagire ha dovuto imbrigliare il furore che si porta dentro. Ma di Federico ha saputo ricomporre la memoria e l’immagine che lei stessa ha scelto, la foto che tutti conosciamo, uno sguardo che è «un rimprovero muto» di quel ragazzo che, nato prematuro, un giorno strappò il tubicino che lo aiutava a respirare per il desiderio di cominciare a vivere. La stessa della copertina del libro, Federico bellissimo che ti guarda negli occhi.

 

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