C’è sempre la Mamma nei film di Xavier Dolan, amica, compagna, confidente, nemica, creatura siderale che avviluppa il figlio (maschio) in un amore a spirale: dolcissimo e avvelenato, selvaggia mistura di controllo e di seduzione che scruta ogni suo respiro, desiderio, piaceri, fantasie segrete. La mamma che è lì, che odi e che non puoi lasciare, la mamma da cui farsi cullare nella vasca da bagno cantando Hanging by a moment – regina come solo lei può fare. J’ai tué ma mere si chiamava il primo film del regista canadese che allora (2008) aveva solo diciotto anni.

OGGI trentenne quella figura che ha attraversato con una quasi ossessiva coerenza ogni sua opera lasciando in filigrana trasparire la vita dell’autore è ancora lì, immagine cangiante che la distanza del racconto ha riempito a ogni appuntamento di nuovi frammenti, di altre sfaccettature. E una madre, anzi due – a cui danno vita Natalie Portman e Susan Saradon – una riflesso dell’altra tornano nel tormentato (per la lavorazione) La mia vita con John F. Donovan con cui Dolan si avventura – insieme a un cast pieno di star (Kit Harington, Portman, Sarandon) in un nuovo territorio, Hollywood, senza abbandonare le «certezze» della sua poetica – e dei suoi luoghi ritrovati nel successivo e in concorso all’ultimo Festival di Cannes Matthias & Maxime – spostate qui in una metamorfosi sul confine tra la riflessione sulla celebrità e la propria biografia. E questo passaggio quasi accennato rende anche nella sua sgangheratezza La mia vita con John F.Donovan – da giovedì in sala – uno dei film più riusciti tra gli ultimi dei suoi – senz’altro più del citato Matthias & Maxime: giocando su una bugia (o sulla verità della citazione di Thoreau che apre il film) Dolan ripercorre il proprio cinema e, insieme, fa di quella che potrebbe essere una semplice operazione di autocitazione una sorta di strano romanzo di formazione con cui esplorare  i conflitti del successo e, insieme, la «bellezza» della menzogna di una messinscena da cui l’artista trae il meglio di sé.

LO FA PERÒ in modo (apparentemente) semplice, nella corrispondenza a distanza tra una star millennial di teen ager , il John Donovan del titolo (interpretato da Kit Harington, Trono di Spade) e Rupert Turner, un ragazzino che vuole essere attore e che vive solo con la mamma attrice mancata ( Portman) in Inghilterra dove la donna si è trasferita dopo il fallimento della vita di coppia da New York in cui Dolan mette sé stesso – a otto anni aveva scritto una lettera a Di Caprio rimasta senza risposta. Che Donovan sia un amico immaginario o un alter-ego idealizzato – specie di padre mancato – fino all’isteria dal ragazzino bullizzato a scuola perché gay non lo sapremo con certezza mai, e nemmeno importa. La storia l’ha scritta il ragazzino ormai cresciuto e famoso in un libro e la ripercorre nelle corrispondenze tra sé e l’altro nel corso di una intervista con una giornalista (Thandie Newton) che patisce l’incarico fino però a essere conquistata dalle sue parole.
Potere del racconto? Donovan si è suicidato dopo un scandalo di foto in rete con un amante, era gay ma il suo statuto di icona degli adolescenti non permette che lo sia in modo pubblico, lo ha costretto a una finta relazione etero – con un’altra attrice – e per questo perderà tutto.

Niente di nuovo a Hollywood, e poi è lo stesso Dolan a ammetere citazioni e omaggi, ma questo film in cui il regista sembra aprire la cameretta di ragazzino coi suoi sogni (sbilenchi) ha una sincerità sfacciatamente costruita, meno gridata e soprattutto meno prigioniera di quella volontà dimostrativa all’eccesso che affatica molta della sua opera. Forse di qui in poi è tempo di andare avanti, ma l’orizzonte è aperto.