Ideato nel 1985 per rendere omaggio a Franco Solinas, scrittore e sceneggiatore di film come La battaglia di Algeri e Kapò, il Premio Solinas non è più solo un concorso per soggetti destinati al cinema e alla televisione ma organizza tutto l’anno momenti di formazione e occasioni di dialogo tra sceneggiatori, registi e produttori.

NEGLI STESSI giorni di fine settembre in cui l’isola de La Maddalena ha ospitato le fasi finali della selezione e la premiazione dei 3 concorsi (film a soggetto, documentario e serie tv), si è tenuta anche la tavola rotonda Sono le storie il motore dell’industria audiovisiva. La creatività degli Autori e dei Produttori a confronto a cui hanno preso parte sceneggiatori come Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo, Alessandro Fabbri, Filippo Gravino, produttori come Francesca Cima (Indigo), Francesco Nardella (Rai fiction), Riccardo Tozzi (Cattleya), Gianfilippo Pedote (Blue Joint) e chi, come Michael Hoffman ha ricoperto diversi ruoli: regista produttore e sceneggiatore.

Si è partiti dall’impatto che la rivoluzione digitale sta avendo sull’industria audiovisiva italiana per capire come autori e produttori possono rispondere con creatività e originalità alla crescita della domanda e all’inasprirsi della concorrenza globale. Il confronto non è stato semplice tra cinema e serialità televisiva o digitale. Secondo Tozzi, per esempio, «il cinema si trova in un circolo vizioso e la serialità in un circolo virtuoso. Quindi va rilanciato il cinema, per esempio attraverso proposte ben identificabili con un contesto culturale o con un ‘brand’ come nel caso de L’amica geniale». Per Francesca Marciano, invece, il rischio di «museificazione, di controllo e standardizzazione eccessivi» che corre il cinema può nuocere anche alla serialità la cui creatività è nutrita dal cinema.

C’è chi, come Sardo, ha insistito sul fatto che l’originalità va posta non solo in termini di «storie» ma anche di «voce» e stili della narrazione. Ciò, però, non può non porre la questione del «documentario di creazione», come l’ha definito Gianfranco Pannone, in un panorama culturale ed economico che continua a emarginare sempre di più forme di espressione antinarrative o in cui l’accento è posto proprio sull’enunciazione, cioè sui modi del dire, invece che sull’enunciato, cioè su ciò che si narra. In tal senso, Pedote ha sottolineato che la «ricerca e lo sviluppo» ora in Italia sono operati soprattutto da quel «cinema difficile» che si interroga sul rapporto tra realtà e rappresentazione, tra verità e finzione, che è «fertilizzante per il sistema» seppur trascurato. Il produttore ha messo in guardia dall’andare al traino dei temi «di cui si parla tanto» se si vuole rendersi capaci di rappresentare una contemporaneità complessa come quella che viviamo.

TUTTAVIA, per raggiungere tale obiettivo sarebbe necessaria una riflessione sull’attività audiovisiva che non si limiti a valorizzare lo storytelling e che s’interroghi su che tipo di rapporto stabilire tra il mondo e la sua rappresentazione. Infatti, in virtù del loro potere seduttivo e comunicativo, che a La Maddalena qualcuno ha addirittura qualificato «neuronale», le storie non sono più solo il «motore dell’industria audiovisiva» ma il regime espressivo prevalente con cui la realtà stessa viene influenzata e modellata, fake news comprese.

I PROFITTI di un’industria delle storie avanzata come quella statunitense, che moltiplica le piattaforme di distribuzione audiovisiva e gli ambiti d’azione di chi scrive, sono alti e fanno invidia ai nostri autori. Ma quando la trasmissibilità e l’efficacia delle storie presso il pubblico conta più della verità, i costi in termini culturali e sociali sono altissimi. Dunque, è positivo che «l’industria audiovisiva» italiana si confronti su modelli produttivi, tempi e ruoli creativi, leggi e forme di finanziamento ma sarebbe anche importante riflettere sull’etica della narrazione e sulla scrittura non narrativa. Potrebbe essere uno spunto per future occasioni.