Il rapporto tra giustizia e informazione è tra i più problematici, né può essere definito una volta per tutte. Se, infatti, la giustizia non può sottostare agli umori dell’opinione pubblica, venendo vincolata soltanto alla corretta interpretazione della legge, l’informazione non può essere elusa, ponendosi a fondamento di ogni società democratica, la quale pretende un controllo sociale sul modo di esercizio dei poteri, anche di quello giudiziario. Un terreno sdrucciolevole che spesso porta ad eccessi in un senso o nell’altro. Quando prevalgono le ragioni della chiusura si vogliono costringere i giudici – con leggi o direttive – ad una troppo anodina comunicazione istituzionale, quando si inneggia ad una illimitata apertura si cade preda di un voyeurismo giudiziario e si rischia di ledere i diritti fondamentali delle persone «sbattute in prima pagina».

NON SI PUÒ DUNQUE far prevalere unilateralmente l’una o l’altra ragione, bensì è necessario trovare un equilibrio, un punto di sintesi. È alla ricerca di questo incerto equilibrio che è dedicato il libro di Edmondo Bruti Liberati (Delitti in prima pagina. La giustizia nella società dell’informazione, Raffaello Cortina, pp. 287, euro 19), il quale adotta una tecnica narrativa inconsueta per un giurista: storico-letteraria più che strettamente giuridica. Soprattutto nei primi capitoli l’autore ripercorre le vicende che hanno portato in Francia, New England, Inghilterra e poi in Italia a raccontare i processi da parte della stampa.
Sin dall’inizio si registra un doppio binario: da un lato il nobile impegno da parte anche di grandi letterati (Zola, Gilde, Carducci) che si dedicarono a commentare i grandi processi, dall’altro la tendenza a speculare ovvero spettacolizzare sui sentimenti da parte di alcune testate giornalistiche (dalla Domenica del Corriere a La Notte). Un racconto che serve ad individuare con chiarezza e determinazione qual è il punto di equilibrio tra giurisdizione e informazione e il limite stesso che deve incontrare la cronaca giudiziaria. È la dignità della persona che deve essere in ogni caso preservata.

IL LIBRO RIPERCORRE molti casi noti e attraverso questi interpreta anche le trasformazioni nel raccontare i processi. È questo un modo «empirico» per riflettere su alcuni comportamenti poco attenti a rispettare proprio il principio guida individuato, della dignità delle persone. Così, quando la televisione si occupa dei processi certamente svolge una preziosa opera non solo informativa, ma anche di denuncia sociale necessaria per far prendere coscienza alla società italiana (basta richiamare la forza critica che ebbero le trasmissioni che documentarono come si svolgevano i processi per stupro, ovvero quella fornita nei processi sulle stragi). È anche vero però – pure in questo caso – che c’è un temibile risvolto della medaglia.

QUANDO È LA TELEVISIONE a «fare i processi», troppo spesso senza alcun rispetto per le garanzie individuali o attenzione a separare i fatti dalle opinioni. Giudizi – se non pregiudizi – espressi spesso in modo aggressivo, alla ricerca di audience più che della verità. Quel che può dirsi è che oggi è la degenerazione del processo in televisione che sembra prevalere, venute meno molte trasmissioni di seria denuncia, sostituite perlopiù da trasmissioni pruriginose, ciarliere e diseducative ove le inchieste giudiziarie in corso rappresentano solo dei pretesti per poter dare sfogo ciascuno ai propri preconcetti.
Tra le cause che spiegano questa progressiva degenerazione dell’informazione televisiva in materia di giustizia – un passaggio che potremmo così sintetizzare: dalla denuncia sociale al pregiudizio giudiziario – è da includere il protagonismo di alcuni magistrati. Un aspetto che viene denunciato senza sconti, utilizzando le parole di Luigi Ferrajoli, non essendo sopportabile «l’esibizionismo, la supponenza e il settarismo di taluni magistrati, in particolare Pm»; bisognerebbe riscoprire «il costume di sobrietà e riservatezza». Espressioni di denuncia forte, ma che è necessario ricordare se si vuole garantire una corretta informazione delle e sulla giustizia, carattere essenziale per una democrazia che voglia evitare di cadere nelle degenerazioni del populismo penale.

LE CONCLUSIONI di Bruti Liberati sono condivisibili, anche se in realtà, più che chiudere il volume, aprono la via a future riflessioni, ribadendo la problematicità non risolta del rapporto tra giustizia e informazione nella società dello spettacolo. Così, ad esempio, se è vero che deve ricercarsi una forma di comunicazione più corretta tra i giudici (le procure in specie) e i canali informativi, dubito che la via possa essere quella intrapresa con l’ultimo decreto legislativo n. 188 del 2021 che impone forme eccessive di rigidità nella comunicazione istituzionale, ovvero prova a tutelare la dignità della persona, dell’indagato in particolare, mediante artifici linguistici. Credo che la via da seguire debba coinvolgere non solo la forma, ma anche la sostanza dei problemi sollevati. Temo che ancora lunga ed accidentata sia la strada per assicurare un equilibrio tra le ragioni della giustizia e quelle dell’informazione. È vero però che la «stella polare» che ci indica la rotta non può che essere il rispetto della dignità delle persone, fuori e dentro il processo.