Calcutta, con il secondo disco Mainstream (Bomba Dischi), ha sbaragliato la critica. Tutti d’accordo, compresi noi, un po’ meno i fan, che dal primo album hanno percepito un cambiamento verso il pop nazionale, più ordinato e pulito. Appunto il pericolo mainstream. Perché, malgrado siamo sovraesposti alla musica e in epoca di condivisioni internet, quando un artista meritevole si affaccia nell’immaginario collettivo massificato, si tende a crederlo smarrito, privato di quel talento speciale che solamente la nicchia vorrebbe conferirgli.

Tanto che, a un certo punto, qualcuno ha cominciato a domandarsi se il titolo dell’album non fosse ironico, una presa in giro, una dichiarazione d’intenti, un rischio calcolato o solo incoscienza: «Ho detto talmente tante bugie su questo titolo che non ricordo più la verità». Ed eccolo, che rimane come si rappresenta, trasandato e insofferente, ratificandosi come un singolare (finalmente) cantautore italiano, di Latina per la precisione. E da poco omaggiato dal rapper Coez con una cover della sua Cosa mi manchi a fare.

Nel disco, dietro la malinconica ironia e la quotidianità imperfetta di un giovane artista, ci sono quasi tutte canzoni d’amore, rafforzate dall’eco della distanza. E diverse sferzate alla borghesia di sinistra, riassunti in quelli che ascoltano De Gregori e Celestini, per capirci. Come se l’ambiente culturale italiano – e non sarebbe il solo – lo opprimesse: «In realtà non mi opprime nulla. Le sferzate che dici te sono solo un modo per fulminare una persona che mi ha fatto stare male. È solo un gioco, anche se non vado mai a vedere Celestini». Gioco o meno, il disco ha un impatto concreto, infatti non sarà strano, dopo due o tre ascolti, ritrovarsi a canticchiarne i ritornelli.

Si è parlato molto anche del supporto nella produzione di Niccolò Contessa de I Cani, come se rischiasse la sua influenza nel sound: «Ho arrangiato e prodotto il disco insieme a Marta Venturini di Studio Nero. Niccolò mi ha aiutato durante il mix, assieme a Suri, a scremare un po’ gli arrangiamenti e a trovare un suono definitivo del disco».

Calcutta non l’ha portato la cicogna. Oltre ai due dischi ha alle spalle vari progetti e il cammino del suonatore, treni e corriere, locali e lunghe notti: «Sono un musicista strano. Io di vita in sala prove ne ho fatta ben poca, tranne che nei primi anni di università, tempi di iperattività musicale dove ho formato e sciolto un sacco di progetti, fra i quali Calcutta, che è l’unica cosa rimasta in piedi da allora. Mi sono ritrovato spesso in giro per la penisola a cantare le mie canzoni chitarra e voce. In questo girovagare ho conosciuto molti dei miei amici più cari con i quali mi piace suonare, uno su tutti Pop X, che a mio avviso rimane la cosa più interessante in tutto il panorama italiano. Ora che ho una band passo molto tempo a provare e devo dire che mi sta quasi piacendo!». A questo punto però è bene capire cosa pensi, più che della musica mainstream, dell’intrattenimento ad essa legata: «Non lo so, non penso sia una cosa brutta passarci, l’importante è essere solo di passaggio».

Insomma evita di rispondere, con garbo. Come una prova del nove, domandiamo cos’abbia ascoltato oggi: «Gioacchino Turù, il primo disco». Non proprio Gino Paoli o Laura Pausini. Promosso.