La crisi tra India e Pakistan si alimenta di un’ostilità reciproca sedimentata nel tempo, rimanda alla storica contesa sul territorio del Kashmir, si avvita intorno a percezioni e umori popolari a cui i leader politici danno sponda istituzionale. È una crisi innanzitutto bilaterale. Ma è anche una crisi regionale, causata da uno smottamento cruciale nell’equilibrio di poteri dell’Asia centrale e del subcontinente indiano.

L’epicentro di questo smottamento non è il Kashmir, ma l’Afghanistan. Il motore si trova a Doha, dove in questi giorni una delegazione di Talebani di altissimo livello incontra l’inviato del presidente Usa Trump, Zalmay Khalilzad.

L’obiettivo è trovare un accordo attraverso il quale gli Stati uniti possano ritirarsi, salvando la faccia, e i Talebani tornare al potere, ripulendo la propria immagine.
Quale che sia l’esito, ancora incerto, dei colloqui, rimane il fatto principale: gli Stati uniti si ritirano dall’Afghanistan. O almeno così dicono di voler fare.
La decisione ha innescato uno smottamento sotterraneo ma senza precedenti tra i Paesi dell’area, fin qui divisi da molti interessi divergenti, ma uniti da uno scopo comune: contenere le spinte egemoniche di Washington, entrata a piedi pari in una regione già conflittuale con il pretesto della war on terror. Ora che Washington annuncia il disimpegno, quel patto non vale più. Cambiano le carte in tavola. Cambiano soprattutto per Islamabad, che esce rafforzata dalla scelta strategica di Trump, e per New Delhi, che al contrario ne esce indebolita.

Nell’agosto 2017, presentando la sua nuova dottrina asiatica, Trump aveva criticato duramente il Pakistan: vi riempiamo di soldi ma non contrastate il terrorismo, accusava il presidente Usa auspicando un ruolo più significativo dell’India in Afghanistan.

Oggi la situazione è opposta. Lo dimostra ciò che avviene a Doha, dove l’inviato americano Khalilzad ha appena incontrato il numero 2 dei Talebani, mullah Abdul Ghani Baradar. Un incontro senza precedenti. Che è potuto accadere soltanto perché così hanno voluto le autorità pachistane, che hanno incarcerato Baradar nel 2010 per poi liberarlo nell’ottobre 2018, così da accreditarsi come interlocutori affidabili agli occhi degli americani.

Facilitando i colloqui con gli esponenti della guerriglia, con cui hanno rapporti non lineari ma di lunga data, i pachistani consolidano la propria posizione diplomatica nell’area e nei confronti di Washington. E possono permettersi di dirottare attenzioni e risorse dall’Afghanistan al Kashmir.

Anche attraverso i gruppi della galassia jihadista. Se Islamabad incassa, New Delhi, però, paga. Sconta una progressiva marginalità sul fronte afghano. Il fatto di non contare granché nel processo negoziale con i Talebani. La risposta muscolare del primo ministro Modi all’attentato del 14 febbraio a Pulwama contro le truppe paramilitari indiane risponde certo a esigenze interne, legate alle elezioni di maggio. È un messaggio di rassicurazione e mobilitazione interna.

Allo stesso tempo è un messaggio di fermezza rivolto a Islamabad. Letto in una cornice più ampia, è anche un messaggio agli attori regionali e a Washington: nella partita sul futuro afghano ci siamo anche noi.

Che l’Afghanistan finisca nelle mani dei Talebani, sostenuti dal Pakistan, non ci sta bene. Vogliamo garanzie. Altrimenti, mentre si tenta di chiudere il fronte afghano potrebbe riaprirsi quello kashmiro.

Il quadro regionale, quindi, complica la crisi indo-pachistana. Ma allo stesso tempo ne facilita la soluzione: né Washington, sulla via del ritiro, né Pechino, consapevole del proprio ruolo presente e futuro, possono permettersi un conflitto vero e proprio. La diplomazia, più silenziosa dei caccia, è all’opera.