Le abbiamo riviste insieme una a una – saranno state in tutto quattro o cinque – l’ultima, diversamente dal solito, era quella buona. «Sì, in questa mi riconosco», ha affermato Jeff Wall (nato a Vancouver nel 1946, dove vive e lavora), dando un rapido sguardo al ritratto scattato alla fine dell’intervista. Il tè delle cinque, nella hall dell’hotel bolognese dove soggiornava con la moglie, ha introdotto la conversazione.
Interprete della fotografia concettuale, Wall ha partecipato a esposizioni internazionali come Documenta, Biennale di Venezia, esponendo tra i vari musei alla Tate Modern di Londra, al Moma di New York, al Deutsche Guggenheim di Berlino e nel 2013 al Pac di Milano. A Bologna era protagonista di un talk all’Auditorium della Fondazione Mast, nell’ambito della mostra Pendulum. Merci e persone in movimento. Immagini dalla Collezione di Fondazione Mast (fino al 13 gennaio 2019), curata da Urs Stahel, tra gli eventi celebrativi dei primi cinque anni di attività del centro culturale multifunzionale. Fra gli appuntamenti europei c’è anche la retrospettiva Jeff Wall. Appearance (a cura di Christophe Gallois e Clément Minighetti), realizzata dalla Kunsthalle Mannheim in collaborazione con Mudam Luxembourg – Musée d’Art Moderne Grand-Duc Jean (fino al 6 gennaio 2019). Con voce pacata, il fotografo canadese ha risposto alle domande con interesse, lasciandosi sfuggire più di un sorriso. «Dovevo permettermi di essere me stesso e esprimere affetto per ciò che amavo, per esempio la pittura, il cinema, la letteratura», ha affermato ripercorrendo le tappe iniziali della sua carriera.

Jeff Wall, foto di Manuela De Leonardis

L’osservazione è la prima azione che permette al fotografo di stabilire un contatto con gli eventi che succedono al di fuori. La sua macchina è lo strumento per esplorare la curiosità o per tenerla a bada, fissando un momento che ha l’illusione di essere reale?
Domanda complicata. Penso che il modo migliore per dare una risposta sia fare una distinzione tra la fotografia classica, che opera come ha indicato, e il motivo per cui tale immagine si dà il compito di catturare l’evento. Non è un compito che perseguo. Non che ci sia qualcosa di sbagliato, semplicemente non mi si addice. L’idea estetica del reportage, che appartiene alla fotografia classica è importante, ma non è l’aspetto totale della dimensione artistica della fotografia.

Tuttavia nel suo lavoro, fin dagli esordi, è presente una forte tensione dialettica tra arte e reportage – «tableau» e documento – che riflettono anche l’approccio emotivo con cui viene coinvolto lo spettatore: famigliarità e mistero…
Il reportage è il centro della fotografia, dal punto di vista pratico e sociale e, probabilmente, anche da quello artistico, ma come dicevo non è la totalità. Quando, negli anni 70, ho iniziato a fare fotografia avevo la sensazione che l’imitazione molto forte del reale, rappresentato dal reportage, avesse raggiunto più o meno la perfezione. A quell’epoca, c’erano dei corpus di lavori di fotografia tradizionale che erano così avvincenti – strabilianti – che hanno chiuso la porta a qualsiasi altra cosa. Da giovane ero ambizioso, in modo positivo e mi piaceva fare le mie cose per bene, non volevo diventare un seguace di Robert Frank o Walker Evans. Volevo prendere la mia direzione. Senza entrare nei dettagli, nella fotografia stessa c’erano altre vie che avrebbero potuto essere esplorate artisticamente senza contraddire la dominanza del reportage come genere. Avventurarsi su questi nuovi percorsi mi avrebbe permesso di contemplare l’identità stessa della fotografia. Cominciavo a interessarmi alle contraddizioni insite nel reportage, agli aspetti che erano stati eclissati dalla dominanza dell’idea della fotografia come nuova forma d’arte diversa dalle altre, la cui identità era basata, appunto, sul reportage. Tutti gli elementi che chiamo cinematografici fanno parte, fin dall’inizio, dell’idea della fotografia costruita. La staged photography era già lì, non è arrivata dopo.

In particolare, nella conversazione con David Campany in «Così presente, così invisibile» (Contrasto 2018) parla della lezione di Garry Winogrand – percezione, casualità, individuazione dell’evento nel suo fluire – evidenziando come le «non regole» lo avessero portato anche a scattare senza guardare nel mirino con la consapevolezza di essere già in mezzo a ciò che accadeva. Afferma che «Winogrand ci dimostra che niente di ciò che consideriamo necessario alla fotografia intesa come arte è in realtà indispensabile»…
Winogrand è famoso per questo mito, che probabilmente è tale, di aver fatto migliaia di fotografie senza mai guardare nel mirino. È successo a carriera inoltrata. Comunque, la sua opera segna un limite rispetto a ciò che è la fotografia. Ci fa vedere come diventi un quadro, indipendentemente dall’intenzione dell’operatore. Lui era più vicino a una fotografia automatica di quanto lo sia mai stato un fotografo tradizionale e ha portato questa sua idea del reportage al limite. Oltre c’è il robot, la macchina fotografica surreale, l’automatismo totale della presa d’immagine. Anche se non è il mio fotografo preferito, mi sento vicino a lui. Siamo ai lati opposti di una linea di demarcazione molto sottile. Proprio per via di questa differenza la relazione diventa molto interessante. Si può dire che l’attività automatica di Winogrand concluda la street photography o ne estenda le possibilità portandola ai suoi estremi. Una volta arrivati a quel punto bisognava cercare altrove. Ed è quello che ho fatto. Al di là di quel limite esiste solo la cinematografia.

Si parla spesso delle referenze pittoriche nelle sue visioni fotografiche che non escludono codici del linguaggio pubblicitario e che sono costruite con un perfezionismo che deriva dal cinema. Ma c’è anche la storia, la politica, la letteratura, come in «Installation of Faking Death» (’77), «The Destroyed Room» (’78), «Picture for Women» (’79) e, tra le altre, «After Spring Snow by Yukio Mishima, chapter 34» (2000-05). Nel costruire queste composizioni attraversate da silenzio e sospensione, affidate tecnicamente al lightbox (almeno fino al 2007), che significato ha l’uso della scala 1:1?
Il modo migliore per approcciare questa questione è il fenomeno del tableau, perché il concetto, il modello, la forma – come vogliamo chiamarlo – viene proprio da lì. All’inizio, avevo l’impressione che la fotografia fosse troppo piccola, perché quella tradizionale era creata per libri e riviste. Non è una critica, accetto l’estetica della fotografia classica, dico semplicemente che non corrispondeva al mio modo di lavorare. Forse, però, sono manierista (sorride) rispetto alla tradizione classica! Ma, allo stesso tempo, già negli anni ’70 avevo questa forte sensazione che la fotografia fosse, potenzialmente, un mezzo per suscitare forti emozioni. Il modo per farlo era usare il tableau che è più grande rispetto alla fotografia tradizionale e molto più collegato fisicamente allo spettatore di quanto lo sia un dipinto. È anche più dinamico nello spazio, senza violare l’estetica della fotografia.
In passato quando si voleva ingrandire o rimpicciolire l’immagine si usava l’ingranditore. Più ci si spostava indietro e più l’immagine cresceva. Non c’era nessun motivo perché non si potesse stare ancora più indietro. Non ci sono regole che dettano quale sia la distanza necessaria. Mentre lo sperimentavo scoprivo aspetti della fotografia che prima non erano così evidenti. Era davvero appassionante. Il tableau che. tra l’altro è stato inventato dai pittori, indica qualcosa del mondo in un modo molto speciale e qui, in Italia, ci sono molti esempi da Giotto in poi. Ho creduto che la fotografia potesse partecipare a tutto ciò, con appropriatezza. La mia ambizione è stata non di essere un pittore, ma di prendere parte a un’avventura che svelasse aspetti della fotografia un tempo tralasciati.

 

SCHEDA

Ai due estremi del movimento oscillatorio di Pendulum. Merci e persone in movimento (a cura di Urs Stahel) al Mast di Bologna ci sono due immagini distanti 122 anni. L’albumina del 1886 di William Henry Jackson con la locomotiva che avanza sotto l’acquedotto di Querétaro (Messico) e l’installazione di 33 c-prints di Xavier Ribas (Nomadi), metaforica visione della nostra contemporaneità, dove si preferisce distruggere un lastricato di cemento, lì dove sorgeva un’industria, per sloggiare l’accampamento di zingari nel quartiere di Poblenou (Barcellona). La fotografia, che è richiamata al suo ruolo di testimone, spazia tra architettura, politica, storia ed economia definendo anche la linea di demarcazione tra spazio privato e pubblico. Se Doisneau traduce la fiducia nel mezzo di trasporto (automobile) descrivendo il momento alla déjeuner surl’herbe, Lewis Hine ci riporta all’emergenza viaggio-lavoro-emigrazione con i suoi Italiani in cerca dei bagagli smarriti (1905/1940). Tra le immagini della collezione di Fondazione Mast gli scatti di Helen Levitt del ’75 raccontano l’odissea dei pendolari nella metropolitana di New York, distanti anni luce da quella dei lavoratori neri sudafricani (I passeggeri di KwaNdebele, 1983-’84) di David Goldblatt. Quanto ai ritratti, il mozzo della Queen of Dycusburg, Memphis, Tennessee (1935) di Ben Shahn è potente così come quelli «indiretti» di Yto Barrada che nella serie Plumber Assemblage, Fig. 1 – 10, Tangier raffigura gli idraulici di Tangeri attraverso i loro attrezzi: tubi, rubinetti, manopole. Il bianconero delle anonime foto d’archivio e le stampe dei maestri (tra cui Lange, Frank, Jodice, Mulas e il più giovane Mosse), lasciano spazio anche al colore nella rappresentazione seriale di Annica Karlsson Rixon Camionisti (bianchi), 736 stampe digitali e, in una chiave più concettuale in quella di Sonja Braas, autrice di Container (An Abundance of Caution), sensibile interprete degli equilibri precari della natura e dell’uomo, mentre Henrik Spohler in 01 Data Flowe Global Soul alleggerisce la tensione restituendo una visione intima della tecnologia. (m.d.l)