E’ la metà degli anni sessanta quando Renata Boero (Genova 1936) comincia a realizzare i Cromogrammi: grandi teli colorati per immersione in infusi di pigmenti naturali (curcuma, henné o cocciniglia prevalentemente) e ripiegati più volte, affinché su di loro si imprimesse in modo plastico una griglia regolare, generando un contrasto fra un atto empirico e un desiderio di ordine. Questo genere di opere, di cui il Museo del Novecento di Milano presenta un’inedita selezione nella mostra Kromo-Kronos a cura di Anna Daneri e Iolanda Ratti (fino al 23 giugno), nasce quindi da un’impronta naturale, un tentativo di inserire una materia viva e metamorfica entro una struttura modulare oggettiva come in un monumentale campionario dell’esistente, il cui assunto concettuale di partenza sfugge però a una classificazione descrittiva per un’intensità tellurica e un’intelligenza antropologica che non lasciano spazio a paragoni: bisogna riflettere sul concetto di traccia che scolora, di ombra soggetta per costituzione a un mutamento, forte di un intenso potenziale allusivo e analogico.
Anche se l’artista non mette mano direttamente alla pittura, l’impronta ne è un derivato e rimanda a radici informali: i segni del colore penetrato nella tela, più o meno intenso per tonalità a seconda della durata del bagno in curcuma, henné o cocciniglia, come in una morsura calcografica o in un’esposizione fotosensibile, hanno impronte sfrangiate e frammentarie come in uno stadio transitorio della materia, su cui poi l’artista prende note e appunti di lavoro come se la tela, pur di grandi dimensioni, fosse la lavagna di un grande promemoria di lavoro. Pesava la lezione del suo maestro, Emilio Scanavino, e dei suoi segni avvinghiati a una griglia che produce una sequenza narrativa, di cui Renata Boero traduce il ritmo dispiegando la tela come una pagina tipografica, e lasciando che l’alternanza di campiture più calde e più fredde, più cupe o più trasparenti, derivi dal trattamento e da un calcolo mentale più che da un intervento diretto: la scommessa, insomma, sta nella previsione di un risultato e nel saper calibrare i pesi cromatici «a distanza». In questo modo, lavorando con la natura, il suo monumentale campionario cromatico tratteneva gli umori e la memoria ancestrale della terra.
Nella sua ricerca echeggiano molti elementi familiari al lessico delle avanguardie del dopoguerra: l’impronta, la tela liberata dal telaio, la modularità e la performatività del processo artistico. È pienamente nello spirito dei tempi anche nel momento di «verifica ambientale» del proprio procedimento con le azioni presso i Cantieri Baglietto di Varazze nel 1976. Eppure nei Cronogrammi, e nelle più recenti Ctonigrafie, risuona una memoria più arcaica, un senso del vissuto talvolta logoro e consunto, che non è solo formalisticamente concettuale ma compromesso con la vita più di quanto le dichiarazioni dell’artista stessa non ammettano. In un testo del 1976 intitolato Regesto, in anni cruciali per lei che preludono direttamente alla partecipazione alla Biennale di Venezia del 1982, dichiarava infatti di aver deliberatamente abolito il rapporto diretto con la pittura per giungere alla «concentrazione di un procedimento operativo concreto», cercando di limitare il proprio intervento «al calcolo del tempo esatto di immersione ed al sistema modulare di piegatura della tela, lasciando poi alla ineluttabilità casuale le modalità di assorbimento, in modo che risultino effettivi artefici del lavoro la tela e le erbe, in un rituale di tipo magico-mitico recuperato ad una coscienza di prassi quotidiana».
L’atto del dipingere, perché pur sempre di pittura si tratta, non è dunque una riflessione autoreferenziale sugli strumenti del linguaggio: al contrario evidenzia la natura del supporto nella sua povertà, come l’ostensione di un sudario. È un ritorno al primitivo, se non addirittura al primordio, che passa da Jung e Lévi-Strauss, forse sulla stessa china percorsa da Claudio Costa, ma con un più diretto contatto con le proprietà della materia nella loro ruvida originarietà. Una via che porta in Africa, a cui nel 1999 la Boero dedica un libro di illustrazioni prefato da Paolo Fossati e con poesie di Charles Carrère: l’Africa non è soltanto un luogo fisico, ma è anche l’idea di un mondo remoto che vive di un respiro antico.
Viene poi da pensare che per una generazione di donne, in un sistema dell’arte massicciamente maschile, una certa curiosità antropologica declinata in senso etnografico o di visione ancestrale avesse costituito un segno di distinzione, l’identità di uno specifico campo di ricerca lasciato libero dai colleghi uomini. Bisognerà leggere così i grandi teli di Renata Boero, ma anche i graffiti camuni di Franca Ghitti, il cosmo alchemico di Gabriella Benedini, forse persino certi telai di Maria Lai, e le curiosità scientifiche e astronomiche di Nedda Guidi. Con quest’ultima, non a caso, spartisce nel 1977 una pagina di «Data»: i Sedici elementi in cotto grigio della Guidi, ai tempi della Cooperativa di via Beato Angelico a Roma, condividevano una modularità cromatica data dalla stessa materia (l’argilla), dal colore del cotto a quello della terra cruda, dalle ossidazioni all’alternanza di superfici lucide e opache. Recuperando come pratica artistica operazioni e competenze prettamente femminili del mondo rurale o proto-industriale – dalla tessitura alla tintura – e facendo cortocircuito con gli strumenti dell’installazione e della performance, si puntava l’attenzione su una civiltà in via d’estinzione entro un paesaggio in mutamento, facendo però attenzione a non dare una coloritura esoterica al nuovo rituale artistico a discapito della valorizzazione di un sapere manuale.
Renata Boero lo dichiara esplicitamente nel 1976 in un testo su La ragione della ragione: tramite la «comprensione dei processi», fuori da logiche naturalistiche, punta «a un rapporto più giusto e più vitale non soltanto con le cose della terra, ma anche con gli uomini che abitano questa terra, con le loro più antiche e radicate abitudini, con i riti delle loro società, con la sacralità del loro vivere insieme». Un interesse morale, dunque. È una memoria antica, ma, come scriveva ancora in Regesto del 1976, « quale antica tenue traccia di un “fare” che si invera nella materia. Incursioni e permanenze alla luce di una temporalità altra da questa, che queste vogliono scuotere nelle sue fondamenta, per rimettere in discussione il fare e l’agire che questa storicità ha cristallizzato».