Il programma minimo batte il programma massimo malgrado Mario Draghi non giochi a poker con le delegazioni che, velocissime, gli sfilano davanti nel secondo giro di consultazioni. Le carte del presidente incaricato sono scoperte e per tutti recita i punti del programma che intende presentare in parlamento. Non c’è dentro ogni cosa, solo sei dossier e tre titoli. Peraltro assai poco declinati nei dettagli: ieri nessuno gli ha chiesto di farlo e tutti gli hanno assicurato sostegno senza troppo chiedere. Tanto quello che c’è in agenda basta e avanza per la fine della legislatura. Di certo il presidente incaricato non si darà alcun termine quando scioglierà la riserva al Quirinale – giovedì o venerdì – né davanti al parlamento.

Arrivato alla camera ieri mattina, Draghi ha cominciato a ricevere i rappresentanti dei gruppi più piccoli nel pomeriggio a ritmo sostenuto, qualche volta trattenendoli anche meno dei quindici minuti previsti. La prima cosa che ha detto a tutti è che il suo sarà un governo «europeista» e chi ne farà parte dovrà condividere non solo il principio ma anche le mosse concrete che andranno nella direzione di «una maggiore integrazione europea». Next generation Eu, un programma comunitario finanziato da debito comune, per Draghi è il modello che deve diventare stabile. Nel discorso programmatico – che terrà la prossima settimana prima al senato e poi alla camera – insisterà molto su questo: il suo governo si batterà perché si arrivi a un bilancio e a una fiscalità comuni europei. L’europeismo spinto, assieme al secondo passaggio praticamente obbligato sull’«atlantismo», risponde alle preoccupazioni del Pd che sperava così di mettere in imbarazzo la Lega. Invano. Il terzo macro filone che Draghi ha tirato fuori dai suoi appunti è, con grande enfasi, l’«ambientalismo». Evidente gancio alla tirata green che ha fatto Grillo durante la consultazione di sabato scorso.

Appena un po’ più concreti gli altri tre dossier squadernati dal presidente. Innanzitutto il piano vaccinale, che e suo giudizio è da rivedere completamente e accelerare. Con una delegazione Draghi ha citato positivamente quanto sta facendo il Regno unito, dove a ieri sono state somministrate 12,5 milioni di dosi (sei volte l’Italia). Poi l’enfasi è andata sul lavoro, la preoccupazione è ancora per la fine della moratoria dei licenziamenti e il presidente incaricato ha aggiunto qualche dettaglio sulle sue intenzioni, per esempio rilanciare i cantieri pubblici come volano per l’occupazione. Il terzo dossier è la scuola, dove gli studenti hanno perso troppi giorni di lezione e dunque Draghi ipotizza la revisione dei calendari. L’idea è quella di allungare le lezioni, magari a giugno, ma soprattutto completare le assunzioni degli insegnanti per partire a pieno regime a settembre.

Tre «grandi» riforme completano il panorama, ancora nebuloso in concreto ma già convincente per quasi tutti. Tre non sono tante, ma una soltanto avrebbe bisogno di più dei due anni che restano alla legislatura. Draghi ha spiegato che intende partire con la riforma della pubblica amministrazione, la riforma della giustizia civile e la riforma del fisco. Sono impegni previsti già del Recovery plan e in ogni caso bisognerebbe stargli dietro per continuare ad avere accesso ai fondi. Riforme in che direzione? Non lo ha detto ma non è certo un dettaglio: persino la flat tax cara a Salvini potrebbe essere presentata come una riforma fiscale. A domanda Tabacci, che è stato consultato per la componente Centro democratico (gli ex responsabili che avrebbero dovuto salvare Conte) ha giurato che non sarà quella la direzione: «Niente flat tax che sarebbe un ennesimo intervento a macchia di leopardo, invece una riforma organica del fisco».

Il programma è vasto, ma i titoli sono pochi. E quando gli è stato chiesto di allargare un po’ la lista il presidente incaricato si è come ritratto. La giustizia, ad esempio: Draghi ha parlato solo di quella civile. Nel settore i tempi italiani sono uno scandalo europeo e da sempre ci viene chiesto di abbreviarli, la promessa è anche nel Recovery. Più di una delegazione – il socialista Nencini, gli autonomisti, la radicale Bonino che ha chiesto anche un’attenzione alle carceri – ha accennato anche ai guai della giustizia penale. Ma Draghi non ha raccolto, ben sapendo che il tema spacca a metà la vecchia come la nuova maggioranza (lo si vedrà sulla prescrizione quando si cominceranno a votare gli emendamenti al decreto milleproroghe). E anche sulle riforme costituzionali e la legge elettorale – temi di stretta competenza parlamentare, ma sui quali tutti gli ultimi governi si sono sempre pronunciati – Draghi ha lasciato cadere il discorso. Vuole tenere la barra su un governo di scopo. Superando per questa via, e non per quella impossibile dell’esecutivo a termine, le angosce di Pd, M5S e Leu terrorizzati dalla convivenza con la Lega. «Bado alla sostanza» ha risposto a chi ha avanzato dubbi sulla maggioranza troppo vasta e non omogenea. E non ha detto nulla sulla squadra di governo, tecnici e politci: ne parlerà con Mattarella. Oggi spazio ai partiti più grandi, domani agli enti locali e alle parti sociali. Aspettando Rousseau.