Siamo un gruppo di compagni e compagne di tutta Italia. Abbiamo creduto nel progetto di Liberi e Uguali e nella necessità di fondare un nuovo partito della sinistra italiana.

Questo bisogno sta nelle cose stesse, oltre che derivare dal disposto dell’articolo 49 della nostra Costituzione, che fa appello a «tutti i cittadini» perché si organizzino democraticamente in «partiti politici» per «determinare la politica nazionale». Non c’è democrazia moderna senza partito politico.

Questo è il punto. Non è più possibile che l’Italia sia l’unica democrazia senza un partito della sinistra.

Certo quello della democrazia, della crisi dei partiti storici, della partecipazione e della rappresentanza è un problema anche in altri paesi, ma mai con l’urgenza che ha in Italia.

Siamo dentro una sconfitta storica di portata mondiale. There is no alternative non è più solo uno slogan dei conservatori. È qualcosa che entrato nelle fibre della società tutta intera, nessuno pensa più davvero possibile una realtà diversa, migliore, più libera e più uguale. Il 1989 ha segnato non solo la fine del passato ma anche la fine del futuro.

Oggi possiamo vedere con chiarezza quello che trent’anni fa forse non si poteva prevedere. Se qualcuno poté pensare che la fine del «secolo breve» avrebbe comportato la «fine della storia», il trionfo del liberalismo in campo economico e politico, addirittura l’aprirsi una fase di «noia» democratica senza conflitti, senza ideologie, senza «guerre di religione» ecc., la guerra in Kuwait prima, poi lo scatenarsi del terrorismo come fenomeno globale, le Torri Gemelle, la guerra in Iraq avrebbero chiarito sempre meglio che cosa ci aspettava. Si passò da un giorno all’altro dalla «noia» post-Guerra Fredda alla «guerra infinita», per arrivare alla «Terza Guerra Mondiale a pezzi».

Senza per altro che ci fossero più le forze per contrastare un capitalismo ormai scatenato. Ci furono grandi movimenti di massa nei primi anni 2000, ma non riuscirono a diventare quella «nuova superpotenza mondiale», quella alternativa globale al capitalismo di cui ci sarebbe stato bisogno.

Negli ultimi trenta anni il mondo è cambiato in peggio. Le ingiustizie sono esplose. Le ineguaglianze anche di più. La democrazia è entrata in crisi e indebolita sia nella sua capacità di rappresentanza che come valore universale.

I ricchi sempre più ricchi e sempre di meno, i poveri sempre più poveri e sempre di più.

La cosiddetta crisi del 2008 in definitiva si è risolta in un enorme e spaventoso spostamento di rapporti di forza fra le classi, fra le nazioni, fra Nord e Sud del mondo. Proprio chi aveva causato il collasso del sistema finanziario e creditizio, dapprima negli Stati Uniti e poi in Europa, oggi detta le regole dell’economia e macina profitti. Quando si parla di fenomeni come il populismo, l’antipolitica, la demagogia, la crisi della sinistra, dei sindacati, dei movimenti si deve aver presente questo quadro.

In Italia il governo giallo-verde, cioè la somma di populismo, destra estrema, pulsioni regressive e imbarbarimento del tessuto civile, viene da lontano. Come appunto la crisi della sinistra. Il disastroso risultato del Partito democratico alle politiche del 4 marzo non è un incidente di percorso, una sconfitta elettorale come possono capitare, è il fallimento di una idea di politica, di democrazia, di una lettura proprio dei tempi nuovi che avrebbero dovuto seguire appunto al 1989. Probabilmente si credeva che cancellando la sinistra storica, cancellando anzi la sinistra come tale, in nome di un centro-sinistra non più coalizione fra diversi, ma partito unico e indistinto, ci si potesse finalmente candidare alla guida del paese, in nome di un riformismo pallido, troppe volte influenzato e pervaso dalle politiche della destra. Quel progetto si è realizzato nei modi che sappiamo e i risultati sono sotto gli occhi di tutti, il risultato elettorale del 4 marzo ha segnato un capolinea. A oltre dieci anni dalla nascita del Pd, occorre dire che si è trattato di un errore strategico. Inescusabile e irrimediabile. Potrà esserci un futuro per la sinistra italiana e per la nostra democrazia solo quando scomparirà il Pd. Quando si riconoscerà la necessità di quel fallimento e la si imputerà proprio alle ragioni di fondo che avevano giustificato la nascita di quel partito: la sua idea di politica, di relazioni sociali, di società.

Ma vogliamo essere chiari: neanche la cosiddetta sinistra radicale – negli ultimi dieci anni – è stata all’altezza. Fatta eccezione per alcune circoscritte esperienze (Vendola in Puglia, in qualche misura le giunte comunali di Milano e di poche altre città), la sua classe dirigente ha ospitato troppe persone inette e opportuniste che non hanno mai offerto all’opinione pubblica un serio progetto politico. Non c’è bisogno di ricordare i fallimenti della Lista Arcobaleno o della Lista Ingroia e i modesti esiti dell’Altra Europa per Tsipras e di Liberi e Uguali.

È mancata la politica. La cultura della partecipazione, della democrazia, del radicamento nei posti di lavoro e nei territori. La sinistra ha perso l’anima. L’ha voluta perdere. Ha teorizzato questa perdita. Straparlando di laicità e di fine delle ideologie, disprezzando strumenti come l’analisi accurata della società e dei conflitti nella produzione, ma come anche il partito politico, il tessuto delle sezioni e dei circoli nei luoghi di lavoro, la partecipazione, il voto, la revocabilità e la trasparenza dei gruppi dirigenti.

Come lamentarsi poi se aumenta l’astensionismo, se la gente vota 5 Stelle, se preferisce la destra o i populisti? C’è un nesso di causa-effetto fra quelle scelte e questi risultati. Nulla è fatale, si tratta di fenomeni politici, che rimandano alla responsabilità diretta di intere generazioni di dirigenti e parlamentari. Ha dovuto essere Rossana Rossanda a ricordarci che è «colpa nostra se vince Salvini», colpa di una sinistra che si vergogna di essere se stessa, autonoma e alternativa. D’altro canto come scrive Nadia Urbinati riprendendo proprio Rossanda «dove la sinistra è un partito organizzato, il populismo non sbanca». «Partito organizzato», questo è il punto. Con una identità, una «specificità», altrimenti «un partito pigliatutto che non piglia nulla», come il Pd, lascia campo libero all’antipolitica.

Che fare, dunque?

È necessaria un’operazione chiarezza. Se c’è da pagare dei prezzi il momento è questo, perché ne va del nostro futuro.

Ci appelliamo a tutti coloro che ritengono necessario un nuovo partito della sinistra italiana. Non un generico «nuovo soggetto politico», non un «campo largo», un «campo progressista» o un vago «nuovo centrosinistra», ma un partito politico nei termini previsti dalla Costituzione. Che per noi deve essere un partito del lavoro, della giustizia, dell’eguaglianza, della libertà, della pace, del socialismo.

La disintegrazione di Liberi e Uguali e di Potere al popolo dimostra una volta di più che partire dalla lista elettorale invece che dal progetto politico è esiziale. Prima viene il partito, poi la lista. È l’A-B-C della politica, ma non per i dirigenti della sinistra italiana.

Si convochi subito una assemblea nazionale di tutti coloro che vogliono un nuovo partito della sinistra. Al termine di una fase costituente di idee e di partecipazione si fondi il partito con un congresso ad inizio 2019. La lista alle europee dovrà essere espressione di questo percorso e di questo progetto, non un caravanserraglio di pezzi di ceto politico in dissoluzione.

Slavoj Zizek ha scritto che oggi «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo». Potrà esistere ancora la sinistra solo se non rinuncerà ad immaginare la critica e l’alternativa.

* * * Lucrezia Ricchiuti, Fabio Vander, Giorgio Mele, Boretti Nicoletto, Antonio Pandolfi