In un piccolo appartamento al quinto piano (senza ascensore) di un edificio di microbrigadas nel Nuevo Vedado, Roberto Gottardi progetta un nuovo intervento di integrazione e restauro della sua Scuola di teatro dell’Istituto superiore d’arte. «È il quarto a cui lavoro», afferma con un sorriso e un’energia che poco hanno a che vedere con i suoi 87 anni compiuti. In un continuo sforzo di collegare quanto aveva pensato quasi cinquant’anni fa e i cambiamenti richiesti non solo dalle nuove esigenze e programmi della scuola e delle tecniche di costruzione, ma anche «dal mio modo di progettare, di relazionarmi con il mondo d’oggi che non è lo stesso di quello dell’inizio degli anni ’60 (del secolo scorso). Assieme al mondo, anch’io sono cambiato. Né poteva essere altrimenti».

Raccontando l’avventura della costruzione delle «Scuole d’arte più belle del mondo» iniziata alla fine del 1961, assieme agli altri due architetti Ricardo Porro e Vittorio Garatti, Gottardi insiste nello spiegare che in architettura – e non solo – non esistono verità assolute e che l’importante è farsi domande «sul contesto in cui si lavora». E nella Cuba nei primi anni del dopo rivoluzione era ancor più necessario che l’architetto non fosse solo un tecnico, che sapesse interpretare lo spirito della Rivoluzione. «Tutto sembrava possibile. Ci hanno infatti lasciato piena libertà: non vi erano commissioni incaricate di approvare il lavoro, dunque di questionare le nostre idee, magari di scandalizzarsi delle forme che usavamo e dunque di censurarle. Al contrario, ci hanno detto: fate quello che volete. Anche rispetto al denaro non ci posero limiti preventivi. Era una situazione eccezionale, del tutto irripetibile, che stimolava la creatività».

Nessun limite?

Sì, dovevamo costruire tutto con i materiali che esistevano a Cuba. Vietato importarne. A Cuba esisteva la terracotta. E noi abbiato costruito tutto con la terracotta, dal muro alle coperture. Come è stato detto abbiamo riscattato la volta catalana, quella utilizzata da Gaudì a Barcellona, che permette di dar luce a ampi spazi con pochissimo cemento e ferro. Io anche per gran parte dell’arredo ho utilizzato il mattone. Sembra difficile da credere ma all’inizio del 1960 era quasi impossibile importare sedie. Così ho costruito sedili di mattone. È stata dunque una limitazione che ha favorito la creatività.

A tal proposito, avevate un’idea di base comune?

Quella di un’architettura che si integrasse, quasi confondesse con la natura, tra le due doveva esistere uno scambio continuo. Ognuno di noi, poi, ha espresso questa idea a suo modo, con un proprio linguaggio architettonico. Nel caso della mia scuola, questa integrazione è meno evidente, da fuori appare infatti piuttosto chiusa, introversa: questo è dovuto a una forte tensione verso il teatro, su cui convergono le varie costruzioni.

Nel 1965 la costruzione delle scuole è stata interrotta: nuove priorità della rivoluzione, come venne sostenuto, o sovietizzazione dell’architettura cubana?

Entrambe le cose. Era vero che Fidel aveva dato inizio a una grande opera senza averne calcolato a pieno i costi economici: come accadde anche in altre occasioni aveva pensato che l’utopia fosse a portata di mano. Così non fu, i tempi e i costi della costruzione delle scuole si dimostrarono ben superiori a quanto immaginato dal vertice politico, che doveva affrontare altre priorità: costruzione di scuole, ospedali, alloggi popolari. Ma è anche vero che l’architettura sovietica di quei tempi era l’altra faccia della luna rispetto alla nostra, il funzionalismo aveva semplificato eccessivamente un problema molto complesso come l’uomo, schematizzandone i bisogni.

Di fatto, foste oggetto di critiche – «individualisti, elitaristi» ecc, che rimandano apertamente ai tempi e alle accuse rivolte in Urss alle avanguardie.

È vero, ci rivolsero dure critiche e anche accuse. Peggio, alcuni dirigenti del ministero delle Costruzioni agirono in modo da umiliarci. Per questa ragione Porro scelse di espatriare a Parigi. Nel 1974 fu costretto ad andarsene Garatti. Ma poco importa: le scuole sono lì a testimoniare il nostro lavoro. Anche se non finite, hanno prodotto ottimi artisti, anche di fama internazionale. Questo è quello che conta.

Perché lavora a un nuovo progetto? Quali sono le novità rispetto al primo, concepito quasi cinquant’anni fa?

Innanzi tutto rispetto a quegli anni viviamo in un altro mondo e anche io sono diverso, ci mancherebbe. Dunque , per riferirmi a quanto detto all’inizio, è cambiato il contesto politico, sociale, culturale e in base a questo combiamento ho nuove idee. In secondo luogo sono cambiati i programmi e le esigenze della mia scuola. Ad esempio, il teatro non dovrà essere a uso esclusivo della scuola di arti drammatiche, ma di quelle di danza moderna e classica. Poi sono mutate le esigenze di insegnamento, il numero degli alunni, dunque anche numero e volumi delle aule.

Lei è l’unico dei tre architetti che ha scelto di continuare a vivere e lavorare a Cuba. Perché?

Questa è una domanda che spesso mi rivolgono e che io trovo strana perché entra nella vita privata di una persona. In sostanza io venni a Cuba perché attratto dalla Rivoluzione, ovvero da un cambiamento radicale rispetto alla società in cui vivevo. E volevo contribuire a questi cambiamenti. Poi, per così dire, mi sono amabilmente complicato la vita. Ho avuto mogli e figli. Non tutto nella vita è razionale. Così, per me, Cuba è come un patto d’amore, che deve continuare nel bene e nel male.