Agenti immobiliari, agenti turistici, costruttori edili, agevolazioni per nuove cooperative. Con una raffica di decreti legge nelle ultime settimane il presidente Raúl ha accelerato (anche se per alcuni settori del lavoro privato ha imposto nuove gabbie legali) sulle riforme economiche e sociali che devono modificare il volto del socialismo cubano. Ma nessuna di queste misure ha un impatto simbolico come la decisione di riammettere il professionismo nello sport – abolito nel 1961, due anni dopo la vittoria della Revolución.

Il dilettantismo era una misura voluta da Fidel che voleva mantenere lo sport lontano dai soldi facili e dalle tentazioni milionarie. Lo sportivo doveva essere un simbolo – anche a livello internazionale – dell’«uomo nuovo» prodotto dalla Rivoluzione, legato a valori etici e sociali lontani dal consumismo dominante nelle società capitaliste. Erano i tempi di Teofilo Stevenson, il peso massimo pluricampione olimpico di boxe, morto nel 2012, che rifiutò un compenso milionario per combattere negli Usa contro Muhammad Alì. «Cosa sono dieci milioni di dollari di fronte all’amore di dieci milioni di cubani» aveva risposto agli allibiti organizzatori statunitensi, giunti alla porta della sua piccola casa spersa nella campagna cubana.

Tempi passati. Il governo cubano ora ha deciso che gli atleti torneranno a ricevere un salario legato alla loro attività sportiva e accresciuto rispetto ai compensi degli anni passati – quando erano equiparati a normali impiegati statali – e avranno facoltà di trattenere l’80% dei premi guadagnati all’estero nelle competizioni internazionali. Cresceranno anche i bonus e i premi sportivi decisi dalle federazioni cubane; ad esempio, alla squadra che vincerà il massimo campionato locale di di pelota (il baseball, sport nazionale) andranno 2.700 dollari (lo stipendio medio cubano è sui 15 euro mensili). Ma, soprattutto, gli atleti cubani potranno firmare contratti con società estere, anche americane.

Per alcuni commentatori, una misura tardiva. Come sostiene Yaimara, quattrocentista della nazionale di atletica, «la stalla corre il rischio di essere chiusa quando gran parte dei buoi è già fuggita». Negli ultimi anni le «diserzioni» sono diventate una fuga di massa. In quasi tutti i grandi meeting internazionali, le varie squadre cubane perdevano atleti, allenatori e preparatori. Non solo, atleti di eccellenza che avevano chiesto di gareggiare all’estero, ma pronti a incorporarsi nella squadra cubana per i tornei internazionali o di campionati mondiali sono stati cacciati con ignominia dalla squadra nazionale o costretti a dare le dimissioni, come il caso di Dayron Robles, ex campione olimpico dei 110 ostacoli, che ora gareggia in Germania. Per chi, poi, aveva scelto di fuggire per giocare in una squadra della Major league Usa di baseball, c’era la pubblica ignominia.
Cuba ha steso dunque la mano ai propri campioni. È la misura ha anche una forte valenza politica.

Come la legge migratoria, in vigore dall’inizio dell’anno, è stata una sfida ai falchi anticrastisti di Miami che accusavano «la dittatura cubana» di tener prigionieri i propri cittadini e che ora devono fare i conti con migliaia di cubani che possono arrivare negli States e avere diritto allo status di rifugiati; così anche nello sport la palla passa agli Stati uniti. La nuova legge prevede infatti che atleti cubani possano andare a svolgere la loro attività all’estero, ma pagando allo stato cubano le tesse sui compensi guadagnati. Il cinquantennale embargo Usa però impedisce ogni transazione economica tra Usa e Cuba. In sostanza, per Washington solo gli atleti che abiurano possono avere il diritto di calcare i loro stadi.