Il pirata di Vincenzo Bellini torna al Teatro alla Scala di Milano, per cui fu creato nel 1827, dopo 60 anni di assenza. Una quantità di tempo che risulterebbe incomprensibile se la storia non ci venisse in soccorso, ricordandoci che l’ultimo allestimento del 1958 si fregiò della direzione di Antonino Votto e dell’interpretazione di Maria Callas, Franco Corelli ed Ettore Bastianini. È vero che il successo di quell’allestimento aprì la strada alla riscoperta moderna dell’opera: imprescindibile la ripresa del 1967 al Maggio Musicale Fiorentino, cornice del debutto italiano di Montserrat Caballé.

Ma è anche vero che l’eccezionalità del risultato cristallizzò quell’evento come un terminus post quem con il quale, a torto o a ragione, tutte le riprese successive devono fare i conti. A ragione, perché quando la qualità dell’interpretazione raggiunge quei livelli, è giusto che la si consideri come un modello da emulare. A torto, perché ogni spettacolo dovrebbe essere preso per quel che è: un punto nel tempo con il carattere effimero dell’intrattenimento, non un totem fuori dal tempo, oggetto di un culto tanto cieco da precludere a ogni altro spettacolo la possibilità di affermarsi per se stesso.

Si potrà discutere del fatto che l’allestimento odierno, che vede alla regia Emilio Sagi, alle scene Daniel Bianco, ai costumi Pepa Ojanguren e alle luci Albert Faura, coperti di fischi dagli implacabili loggionisti scaligeri, non sia destinato a entrare nell’Olimpo di quelli che fanno la storia; gli si potrà rimproverare di farci attendere la scena finale per regalarci l’unico momento in cui scene, luci e gesti suggestionano e commuovono, ma occorrerà ricordare che Bellini stesso ha costruito la sua partitura come un imbuto che fa precipitare l’opera verso quel momento, vera e propria epifania dove il melos (la scrittura strumentale e soprattutto la scrittura vocale) si fa dramma (la pazzia di Imogene), punto di partenza per le invenzioni senza tempo di Norma e de I puritani.

Si potrà anche eccepire su alcuni aspetti della direzione di Riccardo Frizza, specialista nel repertorio del primo Ottocento, anch’egli impietosamente fischiato, ma gli andrà riconosciuta un’energia trascinante che sostiene dall’inizio alla fine un giusto senso del ritmo e della melodia e una continua ricerca di spessore armonico in una partitura nota per l’esilità della trama orchestrale.

Non occorrerà invece discutere il prodigio della voce di Sonya Yoncheva, attesa nel 2019 alla Scala anche ne La traviata. In questo caso il confronto con il totem si ribalta in stupore unanime: la voce del soprano, pastosa nel registro grave, tagliente in quello acuto, agile e voluminosa allo stesso tempo, sembra avere una struttura simile (nella somiglianza non si smetta mai di valorizzare le differenze) a quella della Divina. Bravo Piero Pretti, seppur con qualche imperfezione in acuto, nel sostenere una parte tenorile tanto impervia. Deludente Nicola Alaimo, stimbrato e schiacciato negli acuti. Repliche fino al 19 luglio.