Quarant’anni a camminare sui pezzi di vetro, attraversando accordi e parole che sono rimaste nella memoria di tutti. Francesco De Gregori ha festeggiato «un compleanno speciale», quello di Rimmel, il disco di un ragazzo solo ventiquattrenne – era il 1975 – entrato presto nella storia della nostra musica leggera.
E ogni festa che si rispetti prevede degli invitati: così l’Arena di Verona ha ospitato un concerto scandito da una serie di duetti e esperimenti – molti dei quali inediti – che non si sono sottratti a una delle regole auree del percorso artistico di De Gregori: non accomodarsi sul già fatto, dribblare l’orizzonte di attesa (magari con qualche rischio). «Se volete incontrarmi/cercatemi dove non mi trovo», diceva un poeta. Forse lo stesso paradosso vale per lui: De Gregori lo si può anche ritrovare sulle strade di ieri, purché si sappia che ci camminerà diversamente.

Perché le canzoni – ha detto lui stesso nella conferenza-stampa seguita allo show, non senza un fondo di emozione – «devono essere vive, non inchiodate come farfalle con gli spilli».
Nessun totem da adorare dunque, nessuna nostalgia, ma la condivisione di un’esperienza che va ancora facendosi. Ed ecco che i 9 brani che componevano Rimmel – 9 perle avvolte allora in un’atmosfera lunare, in una irripetibile grazia – sono rivisti e disseminati, con altri capolavori, lungo due ore e mezzo di musica. Soltanto «Il signor Hood» e «Quattro cani», quanto al disco del ’75, vedono De Gregori sul palco da solo (ma da solo è poi anche su classici irrinunciabili come «La leva calcistica» o «La donna cannone»). «Pablo», fra le altre, è cantata con Giuliano Sangiorgi, mentre «Piccola mela» ospita Malika Ayane insieme a Renzo Zenobi, che suonava le chitarre proprio nella versione originale dell’album. Non sono poche, in effetti, le citazioni dagli arrangiamenti originali, soprattutto quando a imporsi è il Principe in solitaria: ma il De Gregori d’antan ricompare solo per frammenti, per tracce scomposte e ricomposte. E sa anche abbandonare la scena – e con questa i propri gioielli – alle esecuzioni esclusive degli altri.

Colpiscono, in particolare, le interpretazioni di Elisa (al piano su un’algida «Buonanotte fiorellino») e ancora di Malika (in un’essenziale «Pezzi di vetro» per archi e voce), così come molto bella è parsa «Le storie di ieri» – condivisa con il De André di Volume VIII – ricucita addosso alla band valdostana L’Orage. Il costante lavoro di spostamenti e mescolanze fra passato e presente è segnalato anche da un breve filmato proiettato a metà concerto: qui un De Gregori anni ’70 è comparso con la stessa voglia di non farsi incastrare in un’etichetta, in un impegno che non sia anzitutto quello della pratica musicale, del mestiere di cantautore («io vivo di artifici», dichiarava a un cronista, con quella che oggi appare una notevole coerenza). Il video ha ricordato anche quel Lucio Dalla che è stato forse il compagno più importante nella storia delle amicizie musicali del Principe. Una storia che, negli ultimi tempi, si è arricchita di ulteriori capitoli, come ha testimoniato la serata di Verona.

C’è infatti un De Gregori che «cede» le proprie canzoni, oppure le reinterpreta facendosi accompagnare: da Caparezza, che attacca con molta energia su «L’agnello di Dio» e su «Buffalo Bill», o da Ambrogio Sparagna che accentua suggestivamente la vena folk di «Sotto le stelle del Messico a Trapanar», o della bellissima «L’abbigliamento di un fuochista». Ma c’è anche un De Gregori che non solo rifà «Alice» con l’ospite più atteso, Ligabue, ma ricanta poi, dello stesso Ligabue, «Il muro del suono», appropriandosi con naturalezza dei suoi toni rock; oppure si prova, da vero interprete-cantante, in «A chi», insieme al suo legittimo proprietario Fausto Leali.
Chi ha ascoltato il concerto ha assistito insomma a un gioco ininterrotto di sovrimpressioni: ha scoperto che, dopo 40 anni – nascosto dietro gli occhiali scuri e il cappello, e nell’eleganza sovrana della voce – Francesco De Gregori è sempre lui e molti altri, è sempre lì dove lo aspetti, e altrove.