Fino a sabato scorso Barack Obama aveva scrupolosamente evitato di affrontare aprertamente la questione razziale che è parte così fondamentale dell’esperienza americana, e ovviamente della sua stessa presidenza. La lampante omissione da parte del primo presidente afroamericano si spiega inizialmente con un calcolo strategico e la necessità elettorale di proiettare una immagine quanto più possibile «ecumenica».
Era infatti dato per scontato che il primo candidato nero non sarebbe stato eleggibile se percepito come «leader nero», concetto implicitamente ansiogeno per l’elettorato bianco. La presidenza «post-razziale» in un nazione così evidentemente polarizzata lungo linee di razza ed etnicità è stato per anni l’elefante nella stanza, come dicono gli americani, o meglio nello studio ovale di Obama: un paradosso da tutti ignorato come per tacito accordo, in primis da una Casa bianca oltremodo sensibile alle accuse di fomentare la divisione sociale che la destra è pronta a scagliare al minimo segno di «favoritismo».
D’altro canto lo stesso rapporto di Obama con la politica afroamericana non è sempre stato senza difficoltà, sia con la militanza «storica» che non si è mai identificata nella famiglia «mista» e nell’esperienza internazionale e privilegiata del presidente, sia con l’ala religiosa (e omofobica) della comunità nera che non gli ha perdonato l’apertura ai gay. Al di là degli occasionali screzi non c’è comunque dubbio che le vittorie di Obama abbiano costituito un trionfo per la popolazione più disagiata d’America che si è stretta attorno al «suo» presidente, come dimostrano i murales onnipresenti nei quartieri neri delle grandi città, le t-shirt vendute agli angoli delle strade dei ghetti, le foto-ritratto del presidente immancabilmente appese a mo’ di santino ai muri delle case di Harlem, South Central o la South Side di Chicago. Semmai finora era stato lui a minimizzare l’identificazione e proporsi sempre attentamente come presidente «di tutti gli Americani». Ma il caso Trayvon Martin ha infine convinto il presidente «post-razziale» a scendere in campo apertamente e per la prima volta anche come «black american» e usare lo scranno presidenziale per offrire al paese la sua interpretazione del caso Martin come uomo afroamericano.

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Nel suo discorso Obama ha ribadito di rispettare il verdetto di innocenza emerso dal processo a George Zimmerman perché «il sistema ha avuto il suo corso» ma ha ricordato che ai fatti specifici corrisponde un contesto storico e sociale, quello di un endemica ed oggettiva discriminazione razziale. Obama, che in precedenza aveva già detto che se avesse avuto un figlio questi avrebbe avuto l’aspetto di Trayvon Martin, è stato più specifico, spiegando che «avrei potuto essere io 35 anni fa», e come un professore di liceo ha fornito alla nazione alcune nozioni sul «prisma di esperienze centenarie» che formano la percezione dei neri americani: «Ci sono pochi uomini neri – ha affermato – che non conoscono la sensazione di essere controllati mentre fanno la spesa in un negozio. È capitato anche a me. Anch’io come molti ho sentito i lucchetti delle casse chiudersi mentre ci passavo vicino, ho visto le signore stringere più strette le borse e trattenere il respiro quando salivo in ascensore con loro». Trasformato per una volta in portavoce della sua «razza» ha aggiunto: «I neri conoscono bene la storia di ineguaglianze razziali nell’applicazione della legge, dalla pena di morte alle sentenze per droga così iniquamente emesse».

[do action=”quote” autore=”Barack Obama”]«Ci sono pochi uomini neri che non conoscono la sensazione di essere controllati mentre fanno la spesa in un negozio. È capitato anche a me. Anch’io come molti ho sentito i lucchetti delle casse chiudersi mentre ci passavo vicino, ho visto le signore stringere più strette le borse e trattenere il respiro quando salivo in ascensore con loro»[/do]

Verità che hanno trovato un nuovo peso nelle parole di un presidente, il primo, che le ha potute profferire con cognizione di causa. È vero, ha aggiunto. che esistono «livelli di violenza effettivamente più alti nella comunità nera, ma questa violenza ha precise radici storiche: il passato violento degli Afroamericani in questo paese, la povertà e una disfunzione sociale che può essere tracciata a quella difficile storia».
Che un presidente sia stato in grado di dar voce in prima persona alle frustrazioni dei diseredati del suo paese ha innegabilmente sottolineato il dato storico della sua presidenza. Un dato di grande valore, quantomeno simbolico, nel momento in cui i neri hanno assistito all’ennesimo episodio di violenza e ingiustizia, l’ultimo di una lunga serie che scandisce la loro storia di oppressione-emancipazione. In questa afosa estate americana, in cui al cinema si proietta Fruitvale Station, la vera storia di Oscar Grant, il ragazzo nero ammazzato dalla polizia sulla metropolitana di San Francisco, in cui il congresso ha abolito la legge sul diritto al voto nel Sud ottenuta da Martin Luther King, in cui la «black city» per eccellenza, Detroit con la sua popolazione nera all’82%, ha fatto bancarotta, Barack Obama ha fatto il suo coming out come presidente nero di un paese e una società che, ha ammesso, «non è post razziale», almeno non ancora.
Obama ha tuttavia scelto di concludere su una nota ottimista, chiamando in causa la componente fondamentale della sua coalizione politica, i giovani, affermando che al di là del tragico episodio le cose stanno migliorando con ogni successiva generazione e che «quando parlo con Sasha e Malia e coi loro amici e vedo come interagiscono, capisco che loro sono più avanti di noi e di sicuro dei nostri padri e dei nostri nonni su questo cammino». È un dato effettivamente documentabile nei licei di molte città americane, dove ragazzi di ogni etnicità (coi bianchi sempre più spesso in minoranza) condividono una cultura ormai quasi definitivamente post-razziale. Giovani a buon punto forse su quel cammino di cui ha parlato Obama e che in alcuni paesi, dove la convivenza si misura ancora con gli oranghi, non è ancora lontanamente nemmeno segnato sulle mappe.