Una delle fondamenta su cui si regge l’architrave del potere dello sport è l’ipocrisia, declinata nelle sue varie forme. Prima si fa l’accordo per disputare la partita (o il torneo) con la dittatura che ne ha bisogno per ripulirsi un po’ l’immagine. E tutto tace. Poi monta l’indignazione, spesso mirando a obiettivi sbagliati, giusto per consolare le nostre coscienze. Poi cala di nuovo silenzio.

O PEGGIO, si alza un florilegio di giustificazioni sul perché sia doveroso giocare. Succede oggi quando, per presentare la partita di Supercoppa tra Juventus e Milan in Arabia Saudita, si fanno capriole e salti mortali per raccontare che è un’occasione per il paese ospitante per aprirsi a nuovi usi e costumi, migliorare la condizione delle donne, delle minoranze e degli oppressi. È sempre successo, dalla notte dei tempi. Così l’America giustificava, dopo la promulgazione delle leggi razziali tedesche, la partecipazione alle Olimpiadi di Berlino nel 1936 o l’Inghilterra il tour di cricket nel Sud Africa dell’apartheid nel 1990.

COSÌ SI MOTIVAVA NEL 1978 la partecipazione al Mondiale nell’Argentina che torturava e ammazzava, dopo che solo cinque anni prima la Fifa aveva consentito al Cile di Pinochet di giocare una partita immaginaria di qualificazione al Mondiale del 1974: undici giocatori in campo in nome della dittatura contro nessuno, visto che l’Unione Sovietica si era rifiutata di partecipare. E due anni prima, sempre in Cile, la Federazione Internazionale di Tennis aveva organizzato la Coppa Davis. Tornando alla Supercoppa italiana poi, non si ricordano voci di dissenso per la decisione di disputarla nel 2002 a Tripoli, forse perché Gheddafi aveva appena preso il 7,5% delle azioni della Juve.

NESSUNA MOZIONE CONTRARIA per le partite in Cina o negli Stati uniti, che qualche casino in giro per il mondo lo combinano, né tantomeno in Qatar (nel 2014 e nel 2016), che quanto a diritti se la gioca al ribasso con l’Arabia Saudita, e che nel 2022 ospiterà un Mondiale in avveniristici stadi costruiti sui cadaveri della manodopera migrante. Ma forse è effettivamente meglio il silenzio, quando le indignazioni sono velate della stessa ipocrisia che utilizzano i regimi nel dispiegare il loro soft power sportivo. Come si fa a sdegnarsi per una partita di calcio che si svende al regime per vile denaro, quando la Lega di Serie A per un accordo di tre anni con l’Arabia Saudita ottiene una ventina di milioni, mentre secondo i dati ministeriali l’import-export annuale delle aziende italiane con Riad (per tacere della vendita di armi di cui parliamo qui a fianco) si aggira sui 5 miliardi?

ALLO STESSO MODO, puzza d’ipocrisia anche la questione delle donne cui è impedito entrare allo stadio, o cui sono riservati posti specifici, quando l’accusa viene da un paese come l’Italia in cui lo sport professionistico, con i benefici le tutele che offre, è negato per legge alle donne. Un paese che nell’ultima finanziaria ha deciso di abbassare l’Iva al 5% su un bene di prima necessità come i tartufi, e di mantenerla al 22% su un vezzo tipicamente femminile come gli assorbenti. Piuttosto che cambiare qualcosa, meglio indignarsi per una partita di calcio.