Per un bilancio storico-critico dei nove anni di presidenza Napolitano occorre appurare quanto, nel suo modo di interpretare il ruolo, ci sia di occasionale e quanto invece segni un mutamento permanente nella collocazione del Quirinale negli equilibri dinamici del sistema costituzionale. La categoria del presidenzialismo di fatto, utilizzata di solito per descrivere una avvenuta sovraesposizione del Colle nelle vicende istituzionali più delicate, non è adeguata per cogliere la reale portata, e dunque le conseguenze di più lungo periodo, dell’interventismo quirinalizio, che è parso sicuramente accentuato in taluni momenti.

Malgrado una crescita visibile dell’influenza, e talora anche della responsabilità presidenziale diretta in opzioni di più stretta marca politica, la repubblica non si è trasformata in una variante incompleta di regime presidenziale. Cioè, dopo Napolitano, il problema sul tappeto non è certo quello di portare finalmente a compimento formale quel mutamento qualitativo delle attribuzioni del capo dello stato avvenuto già sul piano della consuetudine, con l’espropriazione definitiva di competenze un tempo parlamentari.

L’eccezionale cumulo di poteri di condizionamento avutosi nella persona di Napolitano (di cui la rielezione, sia pure a tempo e non sollecitata, è una conferma) resta all’interno di un parlamentarismo che, nelle giunture critiche del meccanismo politico inceppato, trova proprio nell’attivismo di altri poteri costituzionali (la Consulta o il Quirinale) una valvola di sfogo, non priva di elementi di frizione e di elastica indeterminazione.

Il regime parlamentare al bivio

La questione cruciale è quindi di accertare se, dopo il surriscaldamento elevato delle funzioni e delle prerogative del Colle, questi poteri d’eccezione, riattivati in risposta alla conclamata situazione di emergenza e gestiti secondo modalità suscettibili di discorde valutazione, torneranno ad essere dormienti (come è già accaduto con Scalfaro, dopo il varo della “trinità istituzionale” impegnata nel governo dell’eccezione e la gestazione di governi del presidente) o invece determineranno una slavina che condurrà alla fuoriuscita dagli ingranaggi peculiari della forma di un regime parlamentare.

Ogni presidente, gettato in condizioni critiche, come sono quelle della seconda lunga crisi dei vent’anni, che ha determinato due crolli del sistema dei partiti in tempi ravvicinati e subìto l’irruzione di un potente vincolo esterno europeo che ha limato l’autonomia politica di una democrazia sovrana, conduce una sua politica istituzionale. Ed è proprio questa politica delle istituzioni, calibrata per governare una fase di forte follia sistemica, che occorre analizzare, alla luce di un criterio principe che caratterizza la politica: l’efficacia. La domanda quindi è: Napolitano, con la sua politica delle istituzioni, ha arrestato le dinamiche degenerative che investivano la repubblica o ha contribuito anch’egli con la sua condotta, che aveva delle possibili opzioni alternative, ad approfondire la crisi?

L’efficacia nella crisi

È dentro i tempi storico-politici che ha dovuto gestire che va inquadrato il comportamento del capo dello stato. E quelli toccati a Napolitano non sono stati anni banali. Come ogni presidente della seconda repubblica, è stato eletto da una maggioranza di sinistra. Per fortuna, almeno per il Quirinale, l’alternanza non si è verificata. E al Colle sono saliti personalità nel complesso fedeli all’impianto parlamentare della Repubblica.

Ad ognuno di loro è toccato di convivere con la scomoda presenza di Berlusconi a Palazzo Chigi. Come è capitato per ogni inquilino del Quirinale, anche a Napolitano sono piovute addosso le critiche per non aver rifiutato la firma a leggi discutibili varate dalla destra.

Ma qui, a parte Scalfaro che ha interpretato sino in fondo il ruolo di un esplicito contropotere, il Colle non può in maniera strutturale surrogare le funzioni dell’opposizione.

Per i decreti che possono essere corretti o non convertiti nel normale iter istituzionale o invalidati in un’opera di controllo di legalità che si estende sino alle supreme magistrature dello Stato, la vigilanza preventiva del Quirinale può essere a maglie più larghe. Quando però un atto normativo ha effetti distorsivi immediati, e la sua costituzionalità è assai dubbia (è il caso della legge elettorale Calderoli non censurata da Ciampi e poi irritualmente demolita dalla Consulta), il capo dello Stato deve rifiutare la firma perché l’abuso di maggioranza non è facilmente rimediabile con normali procedure.

Il crollo del bipolarismo

La prima fase della lunga esperienza di Napolitano ha dovuto vedersela con la fragilità del maggioritario di coalizione. Dapprima il centro sinistra che, con la esplosiva diarchia Prodi-Veltroni creata a colpi di primarie, non ha tenuto in aula e poi la disintegrazione della coalizione di centro destra hanno svelato l’inconsistenza degli assi portanti del nuovo sistema politico. Il teorema della coalizione massima vincente consentiva di aggiudicarsi il premio in seggi ma non di sorreggere un coerente indirizzo politico di maggioranza. La necessaria opera di mediazione, entro alleanze multiformi, urtava contro i simboli della personalizzazione del comando (nome del premier stampato sulla scheda elettorale) e ogni blocco di potere saltava in aria dinanzi all’affiorare di inevitabili spinte centrifughe.

Al crollo del bipolarismo meccanico ha forse contribuito una certa sintonia istituzionale stabilitasi tra il Quirinale e Montecitorio che ha indotto Fini ad assumere i tratti di una destra in cerca di un corredo liberale e quindi costretta alla rottura netta con il populismo berlusconiano. Ma il ritardo con cui la mozione di sfiducia è stata votata in aula nel 2010, ha favorito delle operazioni di trasformismo che hanno prolungato artificialmente la vita di un governo politicamente morto. Quello che non ha prodotto per via politica, la esplicita censura parlamentare del governo Berlusconi, il sistema lo ha dovuto compiere per il sopraggiungere di un complesso di interventi esterni e per adempiere a degli inviti internazionali divenuti pressanti a ridosso dell’emergenza della crisi finanziaria. Abile nella deposizione del Cavaliere che ha accettato la defenestrazione senza andare in escandescenza, la strategia del Quirinale ha mostrato una dubbia efficacia nel governo della transizione apertasi nel novembre del 2011.

Stabilità, la regia delle larghe intese

Due erano gli imperativi-cardine delle politiche istituzionali confezionate dal Colle: la stabilità di governo, come valore assoluto in tempi di crisi, e l’emergenza economica e istituzionale da affrontare con lo spirito delle larghe intese e secondo gli imperativi del risanamento e delle connesse riforme strutturali. È indubbio che nelle fasi più gravi dell’emergenza finanziaria, proprio Napolitano sia diventato un interlocutore fondamentale che, con credibilità e prestigio, ha parlato con le più influenti cancellerie (non solo) europee. Però la soluzione di una guida tecnica dell’esecutivo prospettata dal Colle (e accettata dagli attori politici, che quindi ne assumono la responsabilità piena) dopo la caduta del berlusconismo non si è rivelata un fattore efficace nel contenimento della catastrofe in atto.

L’operazione Monti non era una riedizione del governo Dini, perché mentre quest’ultimo era pur sempre un prodotto dell’attivismo dei partiti che avevano progettato “il ribaltone”, e rimanevano pronti a sancire con il voto una alternativa di governo, il dicastero Monti nasceva come un esplicito allontanamento della politica dalle stanze del potere e come l’espropriazione di un ruolo del ricambio politico nella fase dell’emergenza.

Per questo l’esperimento Monti, protrattosi così a lungo anche per la miopia del Pd che non percepiva l’usura celere della formula e la rabbia sociale che montava, ha compresso le spinte al rinnovamento, soffocato domande di innovazione e operato come l’agente patogeno che ha determinato un ulteriore aggravamento del malessere sfociato nella ribellione dal basso contro il sistema al motto di “tutti a casa”. La parentesi tecnica ha piazzato i bot e i titoli di stato ma ha spiazzato il sistema politico inducendolo al collasso. Bloccate le vie di una alternativa dentro il sistema, le energie compresse non potevano che assumere i contorni della ribellione esterna contro il sistema.

Monti apre la strada a Grillo

Grillo non ci sarebbe mai stato senza Monti, con la sua strana maggioranza e la sua inopinata discesa in campo. Dalla crisi del berlusconismo, non si è usciti con lo strumentario dell’alternanza ma con la crisi di regime, la seconda nel giro di un ventennio. Non solo l’interprete (Monti e le sue meschine ambizioni di potere) ma proprio il rimedio, quello tecnico appunto, era sbagliato come illusorio neutralizzazione.

Non incostituzionale ma inefficace, alla luce del sopraggiunto crollo del sistema, è risultata la politica istituzionale del Colle. Anche dopo il voto del 2013, e a caduta di sistema politico ormai consumata, la riluttanza a conferire un mandato pieno al “non vincitore” Bersani ha accentuato i momenti di incertezza e di crisi. Ciò ha favorito l’ascesa dell’altro elemento di destrutturazione cieca, che è il renzismo (il Quirinale protegge lo statista di Rignano, arrivando persino a stigmatizzare ogni ipotesi scissionistica nel Pd).

In fondo, quel governo di minoranza, che solo in aula avrebbe dovuto trovare i consensi, e che è stato negato a Bersani come una formula insulsa, costituisce il pilastro su cui poggia il decisionismo simulato di Renzi. Il suo è proprio un monocolore di fatto, che racimola spezzoni parlamentari eterogenei dopo che il governissimo era durato solo per le poche settimane che dividevano il Cavaliere dalla condanna definitiva in cassazione. Il problema è che una maggioranza Bersani-Vendola era percepita come la resurrezione di una sinistra tradizionale, tendenzialmente ostile agli imperativi dominanti nella vecchia Europa, mentre Renzi, malgrado le prove di populismo e antipolitica, è pur sempre una fedele sentinella del rigore, dei condoni fiscali e della precarietà del lavoro. Proprio sui temi del lavoro, dopo una iniziale insistenza sui nuovi diritti civili e sul fine vita, sul regime carcerario e sugli infortuni nelle fabbriche, il capo dello Stato ha condiviso la retorica contro il conservatorismo della Cgil, con l’invito rivolto al movimento sindacale a non disturbare le prerogative della maggioranza intenta nel varo delle cosiddette riforme strutturali.

Se la repubblica avrà, a breve o a medio raggio, una svolta in senso presidenzialista, non sarà però perché Napolitano si è tramutato in “re Giorgio”, e quindi dopo di lui occorre soltanto ratificare gli spostamenti avvenuti nella prassi. La carrozza del commissario avanzerà perché le grandi culture costituzionali della repubblica sono state travolte dal virus della semplificazione che suggerisce l’illusoria soluzione della elezione diretta della carica monocratica imposta attraverso una anomala legge elettorale.

Le riforme istituzionali ad ogni costo, e l’Italicum imposto con i suoi ritocchi solo cosmetici alla vecchia legge Calderoli, sono dei fasulli rimedi dati in pasto (con le norme sul o meglio contro il lavoro) ai censori europei.

Su questo riformismo improvvisato dell’asse Boschi-Verdini, contro cui si sono accesi momenti di ostruzionismo in aula, un minore coinvolgimento del Quirinale, a difesa della velocità delle mosse del governo, forse sarebbe stato più opportuno, quale che sia il livello di preoccupazione sulla tenuta del sistema e sulla presenza o meno di valide alternative al condottiero di Rignano.